LA FABBRICA INVIOLATA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

DSC_7906bOgni fabbrica in cui si entra riserva sorprese particolari.
Non si può mai sapere cosa si troverà dentro un luogo abbandonato, questo è poco ma sicuro.
Tuttavia, ci sono sempre almeno tre certezze:
1) Non sei il primo a entrare lì dentro con una macchina fotografica
Sembra che ormai tutti siano entrati dappertutto. Chi fa foto di questo tipo non dice i nomi dei luoghi, ma spesso capita di entrare in una fabbrica ed esclamare: “ehi, ma io questa roba l’ho già vista”. Dove? Sul sito di uno che a le stesse foto che fai tu.
2) Il graffito è l’arma sociale dei primi anni 2000
Forse oggi hanno già smesso di andare di moda, ma uno dei tratti caratteristici di ogni fabbrica abbandonata è la presenza di graffiti sui muri. In realtà spesso “graffito” è una parola molto grossa, la maggior parte delle scritte è “Sandra ti amo” o “Jennifer ti odio, mortacci tua” – ma perché lo devi andare a scrivere dentro una fabbrica? Certo è che per almeno due tipologie di persone – i writers e i morosi di Sandra e Jennifer – i bianchi, enormi, silenziosi muri delle fabbriche in disuso rappresentano un foglio gigante che non aspetta altro che essere scritto o colorato.
3) Non troverai nulla in giro che tu non abbia già visto in un’altra fabbrica
Questo non è sempre vero, ma lo è spesso. Grosse stanze che sembrano ancora più grosse perché dentro non c’è più niente, assoluta (o quasi) assenza di oggetti. E per oggetti si intendono macchinari (i primi a sparire quando una fabbrica chiude) e oggetti veri e propri; quando va bene trovi un cartello, qualche macchia d’olio, qualche bullone.

Questo è ciò che accade in linea generale, ma è ovvio che si contino anche parecchie eccezioni, come QUESTA. La fabbrica di questo post è una filatura e fa parte di quelle eccezioni: non solo ha ancora molti oggetti al suo interno, ma addirittura sembrerebbe che ne vandali ne fotografi ne urbex siano ancora riusciti ad entrarci. L’architettura è particolare, modulare, fatta di mattoni rossi che le danno un aspetto imponente e granitico. Entrando dalla porta principale ci si trova davanti uno scalone di marmo e mosaicato. A destra, una piccola infermeria con un calendario (il modo migliore per comprenderne la data di abbandono) e un lettino con tanto di coperte. A sinistra gli uffici, nei quali svetta una fantastica timbratrice perfettamente conservata. Qualche graffito/scritta, ma davvero poca roba. Salendo le scale si approda alla sala mensa, piena di tavoli a cui sembra mancare solamente la tovaglia.

Tornando al piano terreno si può entrare negli spogliatoi, in cui sono ancora ben leggibili i nomi delle operaie sugli armadietti. Da qui si sbuca nella fabbrica vera e propria, qualcosa di molto, molto grande. Gli spazi erano frazionati per la suddivisione in reparti, ma è comunque difficile non accorgersi delle dimensioni. Pese, macchinari, manometri, pulsanti, indicatori, un (scusate il piemontesismo) “gabiotto” in cui svetta quello che pare un timone. I grossi macchinari non ci sono più, probabilmente venduti appena la fabbrica chiuse; ma tutto il resto non si è spostato di un millimetro. Una fabbrica inviolata, ancora risparmiata dalla furia umana, in balia di se stessa ma in qualche modo ben protetta. Qui è tutto fermo per davvero: non sono arrivati i fotografi a spostare le sedie vicino alle finestre per fare foto tremendamente banali dal titolo “la luce dell’abbandono”, non sono arrivati (o comunque non in massa) i fidanzatini delusi/innamorati di Sandra e Jennifer, non sono passati i soliti ladruncoli, cui una vecchia timbratrice o anche soltanto del rame farebbero parecchia gola.

Coi suoi colori sbiaditi, i suoi mattoni così nuovi eppure già così fuori moda, i suoi stanzoni simmetrici e il suo timone, questa fabbrica resta una delle più suggestive della zona. Forse proprio perché è rimasta ferma DAVVERO. Inviolata, non deturpata, non derubata.

Quanto durerà?

Un immenso grazie a Marianna

[Tutte le fotografie e i testi presenti in questo post sono tutelati dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotti altrove. Copyright Vuoti a perdere 2016]

THE SOUND OF SILENCE

UN VIAGGIO TRA RISTORANTI, NIGHT CLUB E DISCOTECHE DISMESSI IN PIEMONTE

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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Il silenzio delle fabbriche è assurdo. Una fabbrica è voci, rumori, movimento. Allo stesso modo, forse addirittura in modo maggiore, appare assurdo il silenzio dei – scusate il luogo comune – luoghi della notte: dei night, delle discoteche, dei luoghi che tanto ci piace definire “della movida”. Luoghi pensati appositamente per ospitare il rumore, che sovvertono la temporalità (giorno/notte) e la motivazione (lavoro/svago) della fabbrica ma che ne condividono l’aspetto “sonoro” (soltanto in presenza di alti volumi, fabbriche e discoteche possono considerarsi “vive”).
Abbiamo preso un pezzo di carta, e scritto i nomi di diversi luoghi che, a memoria, sapevamo appartenuti alla vita notturna del triangolo risaiolo compreso tra le provincie di Biella, Vercelli e Novara. Abbiamo cercato quei luoghi di cui ci ricordiamo perché ci siamo stati – ahimè, quando eravamo un po’ più giovani e, sicuramente, un po’ più spensierati – di quelli in cui sono stati gli altri e ce lo hanno raccontato e di quelli che, molto semplicemente, ci ricordiamo abbandonati da sempre. Luoghi fotografati, in controtendenza rispetto ai nostri soliti post, specialmente dall’esterno, per evidenziarne le architetture talvolta strambe e talvolta esotiche, sempre però “fuori luogo”, fasulle, cozzanti col panorama delle risaie, delle villette bifamiliari. Non ho mai amato la discoteca, ne come luogo ne tanto meno come concetto: anzi, vedere queste facciate di cartapesta distruggersi per ovvie ragioni (sono di cartapesta!) mi fa venire in mente un facile parallelismo tra la volatilità delle architetture e quella, ancor più triste, dei rapporti che vi si creavano dentro. Ma sono anche certo che questi oramai tristi esempi di grigio squallore padano sono stati, per molte persone, luoghi di serate indimenticabili, di primi appuntamenti, di strusciamenti più o meno consenzienti. Luoghi insomma di vita, di vita vera, di cui questo triangolo di cui parlavo prima avrebbe nuovamente un disperato bisogno. In qualunque modo la si pensi, la chiusura di questi locali è sintomo di un’amarezza diffusa che ci ha portato a rifiutare lo svago, a starcene a casa perché “siamo senza soldi”. E chi davvero amava ballare, è costretto a fare centinaia di chilometri per trovare posti decenti. Quando – basta leggere i commenti ancora presenti in rete – i posti decenti li avevamo tutti nel raggio di una ventina di chilometri.

Il Maialetto, Santhià (VC)

MaiAletto (1)
Il nostro reportage sui luoghi dimenticati della movida parte dalla frazione di Vettigné, sede dell’omonimo castello abbandonato che sarebbe un vuotoaperdere mica da ridere. A poche centinaia di metri dal castello, tuttavia, sorge il Maialetto, un nome che è tutto un programma. Edificato negli anni ’80, in posizione isolata affinché “ci si potesse fare casino”, è stato, secondo gli autoctoni, diverse cose:
a) ristorante
b) motel
c) circolo per scambisti
d) ristorante
e) bordello cinese
f) ristorante
Sui punti a, d e f siamo disposti a mettere la mano sul fuoco. Sugli altri, vedete voi. L’unica cosa sicura è che il punto successivo, manco a farlo apposta il punto g, ovvero la condizione attuale , è quella di edificio dismesso utilizzato (per colpa della posizione tremendamente isolata) come un’ignobile discarica a cielo aperto che da anni le autorità tentano invano di ripulire. Si fa notare per l’audacia del nome, da un lato in grado di evocare appetiti (culinari o sessuali che siano) e dall’altro genialissimo nel suo suggerire un’apertura prolungata (Mai a letto) che probabilmente non fu mai effettiva (o che lo fu ammesso che il punto e fosse veritiero).

IL TOCCO PIU’ KITSCH: i merletti medievali sul tetto.

Il Mirage, Massazza (BI)

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Seconda tappa del nostro viaggio è Massazza, un luogo che per i biellesi è un non luogo, in quanto ci passano soltanto perché è costruito sulla strada che conduce Biella a Vercelli (e si incazzano perché hanno messo quelle colonnine per il controllo della velocità). In realtà Massazza non è affatto un brutto posto, e ha addirittura un castello che il 95% dei paesi biellesi si sognano. Comunque sia, di fianco ad un colosso dello pneumatico di cui non diremo il nome per evitargli pubblicità (non saprei nemmeno dire se sarebbe positiva o negativa), sorge l’incantevole – a partire dal nome – Mirage, un ex night club che tutti rammentano perché all’interno del cortile c’è uno degli oggetti più kitsch che la mente umana abbia mai saputo partorire: una statua della libertà in scala 1:45 (Massazza come Las Vegas) che vanta
a) terrificante lampione circolare al posto della fiaccola.
b) veste ricavata da una bandiera americana usata a mo’ di toga.

Non è chiuso da molto, e addirittura su internet se ne parla come se fosse ancora aperto.

IL TOCCO PIU’ KITSCH: c’è da chiederlo? Lady Liberty Power!

Il Cinecittà, Cossato (BI)

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La prima discoteca del nostro reportage sorge a Cossato, il più grande comune biellese. Fu una delle prime discoteche della zona, progettata appositamente per il suo scopo con un gusto architettonico decisamente funzionalista (zero finestre, è praticamente un cubo indistruttibile che sembra un incrocio tra il sarcofago di cemento della centrale di Chernobyl e una stazione ferroviaria inaugurata ai tempi del duce). Al di la di tutto, il Cinecittà fu, tra gli anni ’70 e gli anni ’90, una discoteca decisamente frequentata e apprezzata. Addirittura, tracce sul web indicano una super serata (febbraio 1998) con nientemeno che Alessia Mancini, ai quei tempi velina supersexy di Striscia la notizia. Verso gli anni 2000, tuttavia, il calo di utenti “giovani” (diretti verso Novara, in posti tornati di moda come Le cave e Il maneggio, che vedremo dopo) portò i proprietari a cambiare impronta al locale, rendendolo una balera aperta anche il mercoledì sera in cui un pubblico un po’ più maturo poteva ballare, senza influssi techno e hardcore, del buon, sano latino americano. La scelta pagò per qualche anno, ma alla fine le porte si chiusero.

NOTA: i bambini di Cossato chiamano l’edificio l’astronave, a causa del suo pittoresco tunnel d’ingresso.

IL TOCCO PIU’ KITSCH: l’astronave.

I gatti e la volpe, Cossato (BI)
DSC_00512Ristorante.

Il Manila, Roasio (VC)DSC_0037
Il Manila è uno dei night club più famosi della zona, non tanto per la qualità dei cocktail o delle ballerine quanto perché, ogni sei mesi circa, sui giornali locali appaiono fior di articoli riferiti all’ennesima chiusura del locale. Una volta perché ci girava droga, una volta perché qualche ballerina non si limitava a ballare, ma l’unica cosa certa è che ogni sei mesi il Manila chiude. Chiude talmente veloce che tu ti chiedi: “ma perché, quando cavolo l’avevano riaperto?”. Da qualche anno, tuttavia, il Manila è rimasto chiuso per davvero, e sembra che questa volta nessuno abbia intenzione di rilevarlo. Forse perché tutti sanno che, massimo sei mesi, sarebbe di nuovo chiuso.

IL TOCCO PIU’ KITSCH: il nome.

Le cave, Serravalle Sesia (VC)

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Il letto del fiume Sesia è stato, a partire già dagli anni ’70, uno dei siti più floridi per le discoteche e i locali notturni. Discoteche come Le cave e Il maneggio vengono considerate tutt’ora tra le più belle mai aperte in Piemonte e, per alcuni, nel nord Italia. Le cave sorge a Vintebbio, piccola frazione di Serravalle sul cui suolo sorgono
a) la fabbrica di rubinetti Gessi (70% del territorio)
b) l’ex discoteca Le cave
c) il bellissimo castello di Vintebbio
d) un frantoio
Costruita ai piedi della collina, in regione Cave (!), la discoteca aveva un vastissimo parco che, ai tempi d’oro, possedeva laghetti, piante con fiori, insomma, tutto ciò che serviva per renderla, soprattutto d’estate, qualcosa di davvero unico. Col Maneggio di Romagnano seppe attirare la maggior parte dei giovani della zona, a tal punto che il sabato sera la scelta era proprio tra le due discoteche. Costruita negli anni ’80, fu abbandonata presumibilmente intorno al 2006/2007/2008.

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Non conosciamo con certezza la data della chiusura (accettiamo info da chi ne sa), ma a giudicare dal perizoma a vita altissima di questa ballerina, in un video girato durante una delle ultime sere, siamo certi che si tratti proprio degli anni che vi abbiamo indicato.

Il Top, Serravalle Sesia (VC)
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IL TOCCO PIU’ KITSCH: il font della scritta.

La pipa, Prato Sesia (NO)

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Altra discoteca importantissima, corredata da una piscina e da impianti sportivi d’avanguardia (campi da tennis, calcetto, basket, volley) che nel periodo estivo si riempivano di migliaia di persone. La discoteca chiuse i battenti (come Cave e Maneggio) nel 2008, un anno decisamente “nero” per le discoteche costruite nella valle del Sesia. Come molti altri locali, La pipa fu molte cose: ristorante, pub, discoteca, addirittura – in un tentativo disperato pre chiusura – una sala bingo.

DSC_0523Quanto a dimensioni è probabilmente una delle più grandi discoteche della regione. Nel retro, divanetti e cuscini sono stati letteralmente ammucchiati. Se non avessero chiuse tutte lo stesso anno, forse avrebbero potuto venderli ad un’altra discoteca della zona.

IL TOCCO PIU’ KITSCH: il colore dei cuscini.

Il maneggio, Romagnano Sesia (NO)
DSC_0553Se si fa qualche ricerca su internet si scopre che Il Maneggio è probabilmente la discoteca più nota e più rimpianta del circondario. Nacque parecchi anni fa come ristorante e dancing, poi divenne discoteca a tutti gli effetti e, infine, chiuse nel 2008. Era famosa per il gazebo ottagonale di legno. E quella scalinata che portava al parcheggio… Quante giovani in minigonna l’hanno scesa vomitando all’ultimo gradino? Ah, il vecchio, caro saturday night liver… (questa è per pochi). Più di tutte le altre, colpisce per l’architettura squallida (cartapesta, compensato e cartone) che veniva resa magnifica con le luci, gli ornamenti, il buio. Le vetrate dell’ingresso sono state frantumate, ma il celeberrimo specchio posto sotto la cassa è ancora presente.DSC_0546

lo specchio posto sotto la cassa e, sotto, un flyer dell’ultima serataDSC_0548

Sul web si trovano ancora un forum inerente al locale (che ne contiene anche una bella descrizione) e il sito ufficiale.

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IL TOCCO PIU’ KITSCH: l’ingresso di cartapesta e compensato.

BONUS TRACK: Il Due, Cigliano (VC)
DSC_0609Merita una parentesi del tutto particolare, nonostante la lontananza rispetto agli edifici raccontati finora, la discoteca Due di Denari, detta semplicemente il Due, situata sul territorio di Cigliano e per parecchi anni punto d’incontro per i giovani di tutto il Piemonte. Nei suoi ultimi anni di apertura divenne tristemente noto per una terribile vicenda accaduta nel parcheggio. Se infatti si scrive “due di cigliano” su Google, il settimo risultato è

Ragazzo muore accoltellato fuori da discoteca vercellese

DSC_0601L’articolo si riferisce ad un fatto tragico accaduto nel gennaio 2008 nel parcheggio della discoteca: un minorenne, in seguito ad una discussione particolarmente accesa, accoltellò un cliente che morì poco dopo in ospedale. Pochi mesi dopo il fattaccio il locale, che intanto aveva cambiato nome e si chiamava Sbang, chiuse definitivamente i battenti. Alcuni fini sociologi, sul forum del locale, cercano empiricamente le ragioni della chiusura:

“allora se il 2 ha kiuso e grazie solo alle teste di kazzo ke han fatto sempre casini all interno e all esterno della discoteca,così facendo il 2 (…) ha avuto vari problemi con la questura di vecelli,portando con se un casino di denunce,ma non e colpa dello staff x questo,cosa vuoi ke ti dica se lo shock o il pigalle non avranno mai di sti problemi allora non chiuderanno mai.a noi purtroppo ci è andata così”.DSC_0606

Un altro intellettuale continua sulla stessa falsariga:

“dite tanto del due che ha chiuso perchè non aveva i soldi .chissa perchè per due anni è andato avanti sempre con grandi ospiti e locale strapieno.il vero motivo della chiusura è solo per le solite teste di …… che andavano li solo per fare casino..”

Secondo un forum italiano di musica techno i motivi sono invece altri:

“forse qulacuno cmq nn ha ancora capito che il due nn ha chiuso x colpa delle risse o per colpa della gente ma semplicemente xkè lo staff i(…) ha avuto dei problemi interni con il proprietario del locale…….scusate questa uscita ma era doveroso chiarire il perchè della chiusura del due……”

Al di là delle dicerie (e della fama di locale malfamato, acquisita solo negli ultimi tempi), il Due fu una delle music halls più floride ed importanti  del Piemonte. Fondato nel 1968 come ballo con orchestra, divenne una discoteca nei ’70. Durante i suoi 40 anni di vita vi apparirono grandi DJ (Gigi D’Agostino, si dice, esordì proprio qui), personaggi dello spettacolo (Luca e Paolo, Elisabetta Canalis, Platinette, Fabio Volo, Gabriel Garko, Cicciolina, Selen, ecc) e cantanti (Ligabue, Subsonica, Lunapop, Articolo 31, Neffa e moltissimi altri). Con la sua architettura particolare, futuristica, il Due rimane una delle discoteche più pittoresche del Piemonte, ancora viva nel ricordo di chi ne conobbe i gloriosi fasti. Punto d’incontro e dispensa musicale per ben più di una generazione. Si conserva molto bene, anche e soprattutto per la posizione “cittadina”, lontana da quella potentissima natura che si riprende il suo che le appartiene.

DSC_0605IL TOCCO PIU’ KITSCH: i commenti online di alcuni ex frequentatori.

NOTA: se vi interessa l’argomento, consigliamo l’ottimo blog memories on a dancefloor.

Thanks to: Elis

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2014]

LA CITTA’ (FANTASMA) DELLA LANA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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BIELLA. Su un blog che parla anche (e soprattutto) di edifici presenti sul territorio biellese, non poteva mancare un post che raccontasse da vicino la “Biella tessile”, una sorta di civiltà ormai estinta e decaduta (i grandi brand che ancora si salvano appartengono quasi tutti a stranieri) sulla quale si sviluppavano i ritmi e le abitudini di un’intera città. L’industria tessile biellese conobbe un periodo di grande prosperità che attraversò tutto il ‘900, salvo poi spegnersi agli albori del terzo millennio. Biella non era solo una capitale del tessile italiano: il suo valore industriale era riconosciuto anche a livello internazionale.

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La maggior parte di questi lanifici (come il lanificio Cerruti, tra i pochi ancora particolarmente attivi) venne edificata sulle sponde del cervo, fonte inesauribile di acqua da utilizzare per le operazioni più disparate. Tolte le implicazioni legate all’inquinamento, che sarebbero sorte soltanto molto tempo dopo (molte ditte si liberavano degli scarti lasciandoli “cadere” lungo il torrente), questa ubicazione si dimostrò vincente, e garantì ai lanifici biellesi una prosperità inaspettata.

Al giorno d’oggi, vi sono almeno due grossi complessi tessili abbandonati nella zona di Biella città. Il primo si trova sul Cervo, poco prima del ponte di Chiavazza, e negli ultimi anni è stato ristrutturato dal ministero dei beni culturali. Addirittura, dentro uno di questi edifici riportati alla vita (per la precisione la manifattura Trombetta), è stata aperta cittadellarte, una fondazione museale voluta e gestita dall’artista Michelangelo Pistoletto.

Ai lanifici Rivetti, invece, non è andata così bene.

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Situati poco più giù rispetto ai lanifici Trombetta – dopo il ponte di Chiavazza e prima della stazione ferroviaria, ma sempre lungo il corso del Cervo – i complessi del lanificio furono edificati intorno al 1879, come sedi distaccate dello stabilimento principale di Mosso. Giuseppe Rivetti, fondatore dell’impero, comprese subito l’importanza di quella locazione: a ridosso di un torrente, vicino ad una stazione ferroviaria[1], in una posizione periferica che permetteva di ampliare il complesso, ben visibile da chiunque giungesse a Biella dalla pianura. Per queste ragioni, lo stabilimento biellese divenne presto il cuore pulsante dell’azienda, e dal 1900 circa iniziò a specializzarsi nella produzione di (richiestissimi) cascami di rayon. Il complesso si estendeva su una superficie di 47mila mq, per una valore attuale di immobili e terreni vicino ai 4 milioni di euro.

4Si tratta di due foto scattate dal ponte sul Cervo. Unite, mostrano i lanifici Rivetti in tutta la loro lunghezza [clicca sulla foto per vederla in HD]

L’attuale via Repubblica ospitava l’ingresso dei lanifici, che si estendevano a perdita d’occhio fino a metà dell’odierna via Carso. Lo spiazzo conosciuto come il “parcheggione” e la strada che collega via Cernaia a via Carso non esistevano: al loro posto c’erano gli edifici del lanificio, “uniti”, che solo nel 1987 furono abbattuti per modificare la viabilità del quartiere. Osservando l’ultima parte del complesso di via Carso ben si può comprendere questa “rivoluzione spaziale”. Sulla parete che da verso la strada, infatti, sono ancora ben visibili i segni dell’abbattimento/ smembramento di cui fu vittima l’edificio: la parete mostra le tracce di un altro stabile appoggiato su di essa, così come le travi in ferro tagliate di netto suggeriscono la presenza di una continuazione dell’edificio.

“Il complesso dei lanifici Rivetti si presentava come una vera e propria città industriale adiacente alla città; edifici pluriplano adibiti agli uffici e ai servizi erano accostati a unità produttive a sviluppo orizzontale” (Biella e Provincia, Touring Editore, 2012, p.51)

Tra il 1939 e il 1941 i Rivetti affidarono all’architetto Giuseppe Pagano l’ampliamento del lanificio. Pagano, la cui storia merita un approfondimento particolare[2], concepì uno stabile modernissimo – in contrasto con quello ottocentesco situato a Nord – che rimane anche uno degli esempi più significativi di quell’architettura razionalista tanto ammirata dal Duce: nessun orpello estetico o cromatico, nemmeno i più elementari; impronta visiva tanto imponente quanto “ordinata”; massima importanza alla “funzionalità” e minima importanza all’estetica. L’edificio si compone di un grosso corpo centrale parallelo alla strada, costruito su cinque piani in cui la lavorazione si svolgeva, contrariamente a quanto avveniva nelle fabbriche ottocentesche, dall’alto verso il basso. Pagano calcolò che sarebbe stato meno dispendioso trasportare in alto le materie prime, lavorarle lungo i piani e infine farle scendere al piano terra come prodotto finito, piuttosto che farle partire dal basso per poi dover nuovamente “far scendere” il lavorato. Perpendicolarmente all’edificio centrale, vennero costruiti due corpi di fabbrica adiacenti che culminavano con due altissime torri rettangolari. Tra le innovazioni architettoniche presenti nell’edificio, si fa notare la copertura “a shed” del troncone Sud, una sorta di soffitto in vetro che permetteva miglior illuminazione e maggior circolazione dell’aria. Dopo alcuni lavori di ampliamento, svolti intorno al 1953, il nuovo edificio venne ceduto dai Rivetti (che vendettero le azioni e, di fatto, condannarono a morte l’azienda) e divenne una pettinatura autonoma, chiamata appunto Nuova pettinature riunite.

Oggi

Non sappiamo con certezza in che anno gli stabilimenti chiusero i battenti. Sicuramente, a metà degli anni ’90, alcuni padiglioni delle Pettinature Riunite erano ancora aperti, nonostante lavorassero ad un regime piuttosto ridotto. Oggi, invece, entrambi gli stabili (sia quello ottocentesco che quello progettato da Pagano), versano in pessime condizioni. Sono ormai due stabili distinti, in quanto tra loro è stata costruita la moderna sede della Biverbanca. L’entrata del lanificio, sita in via Repubblica, è stata restaurata e il palazzo alle sue spalle è stato ribattezzato Palazzo Rivetti. Per quanto riguarda i due grossi stabili di via Carso, invece, il degrado è oramai totale e selvaggio.

Torre Nord

Entrare dentro lo stabilimento ottocentesco è piuttosto facile: c’è un buco nella recinzione che pare fatto apposta per far passare un visitatore alla volta. L’importante è avere lo stomaco forte: dopo circa una decina di metri tra erbacce, alberelli, siringhe, vetri rotti, si arriva nel piazzale della fabbrica; il giro turistico può partire, ma state attenti perché lo stabilimento è diventato una casa per gli homeless della zona, e non tutti – ad esempio quelli che ho trovato io – sono felici di farvi fotografare il loro giaciglio. Per quanto riguarda invece lo stabilimento moderno, quello progettato da Pagano, l’entrata è oramai impossibile. Ci sono lucchetti e porte chiuse ovunque, e l’unico muretto che permette di scavalcare ed entrare (ammesso poi che si riesca ad uscire una volta dall’altra parte) si affaccia su una banca sorvegliata da decine di telecamere.

Geometrie

Enormi, freddi, divorati dalle piante, silenziosi (apparentemente), questi due enormi edifici sono la testimonianza diretta della fine di una civiltà, la pietra tombale di un’industria che ha conosciuto lo splendore ed ora è ridotta ad uno scheletro. Scheletri, spodestati dal tetto del mondo e adatti soltanto a riparare qualche poveretto senza una casa. Almeno, una funzione ce l’hanno ancora. Forse non è proprio quella che si immaginava il “funzionalista” Pagano, ma oramai cambia poco. Finchè nessuno troverà il coraggio di fare qualcosa con questi edifici (che, ricordiamolo, sono la prima immagine della città per chi arriva dalla pianura), allora forse è giusto che appartengono a loro, agli homeless, simbolo e specchio di una città che ha conosciuto la ricchezza e che ora, stanca e abbandonata, non riesce più a sollevarsi. Proprio come i senzatetto, proprio come gli stabilimenti dei lanifici Rivetti.

La Nuova Pettinatura per chi arriva a Biella

A questo punto desidero ringraziare l’assessorato alla cultura del comune di Biella, che gentilmente mi ha suggerito i nomi di avvocati, curatori fallimentari, e proprietari degli edifici, insomma di chi avrebbe potuto portarmi dentro alla struttura. Cosa che, ovviamente non è successa (a dirla tutta non abbiamo nemmeno ricevuto risposta).

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

 


[1]La stazione ferroviaria di Biella si trovava in quella che oggi è Via Lamarmora. Durante il fascismo, la stazione venne spostata nella posizione attuale: in periferia, perpendicolarmente a via Roma, evitando così che i treni entrassero in centro città. La nuova collocazione favorì sicuramente i Rivetti, in quanto i binari passavano (e passano tutt’ora) a pochi metri dagli stabili. Addirittura, vennero approntate alcune modifiche strutturali che permettevano, attraverso carroponti e gru, di caricare i prodotti lanieri direttamente sui convogli.

[2]Giuseppe Pagano (1896 – 1945) fu un importantissimo architetto funzionalista italiano. Dopo essere stato per anni membro attivo del regime fascista, divenne partigiano e morì prigioniero nel campo di concentramento di Mauthausen, tre giorni prima che la guerra finisse.

FUOCO SULL’ ACQUA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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BIELLA. La FOR (Fonderie Officine Riunite) fu, tra gli anni ’30 e gli anni ’90, una delle più importanti fonderie del territorio. Tra tutte le fabbriche biellesi che costeggiano il corso del torrente Cervo (quasi tutte oramai tristemente abbandonate), è l’unica fonderia: tutte le altre erano aziende che lavoravano nel tessile. Difficile comprendere il perché di questa strana location. Probabilmente, prima di essere convertita in fonderia, anche la FOR era una fabbrica tessile. Ma non è solo l’unica fonderia adagiata sul Cervo: è anche una delle poche fonderie abbandonate rintracciabili sul territorio. L’industria metalmeccanica non ha mai avuto grandi stabilimenti nel biellese, ma quei pochi sono attivi ancora oggi. La FOR, col suo immenso salone ormai divorato dal verde e le sue molteplici vetrate in decadenza, resta una delle fabbriche più caratteristiche del biellese, se non altro per la sua “unicità”.

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IL PAESE FANTASMA DI LERI

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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Ho sempre visto la cittadina di Pryp’jat’ come una sorta di El Dorado per tutti coloro che, come noi, amano esplorare e fotografare ogni sorta di luogo abbandonato presente sul pianeta. Lo scenario che ci si ritrova davanti addentrandosi nella “cittadina” (tra virgolette, considerando che contava 47mila abitanti), completamente disabitata dal 1986, anno del disastro nucleare che colpì la vicina Chernobyl, è uno scenario assolutamente (e tristemente) unico al mondo: un’intera città, ancora in piedi, con tutte le case, le piazze, le strade, al loro posto, piscine olimpioniche, luna park, scuole, fabbriche, tutto totalmente vuoto, silenzioso, privo di qualsiasi presenza umana. Pryp’jat’, per dirla con un termine rubato a cinema e letteratura, è l’unico scenario post-apocalittico “reale” che esista al mondo.

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Questo breve excursus non serve tanto per creare paragoni azzardati (e forse un po’ troppo pretestuosi), quanto per descrivere le sensazioni che ci hanno attraversato arrivando a Leri Cavour, piccola frazione disabitata appartenente al comune di Trino (Vercelli), sul cui territorio sorgono le imponenti torri della centrale termoelettrica Galileo Ferraris (si trovano a poco più di duecento metri dal centro del paese) e, poco distante, l’ex centrale nucleare Enrico Fermi. Ora, razionalmente sappiamo bene che quelle torri sono termoelettriche (anche se il progetto originario, fatto prima del referendum sul nucleare del 1987, prevedeva che fossero un’altra centrale nucleare), che la centrale Enrico Fermi è ormai “bonificata” e che non è mai avvenuto un incidente durante i suoi anni di attività, ma a livello d’impatto visivo – siamo assai bravi nel suggestionarci da soli – la piccola, sperduta Leri non ha potuto che riportarci alla mente la cittadina di Pryp’jat’.

Cenni storici. Non si conosce esattamente il periodo in cui fu costruita la piccola frazione di Leri: i primi dati certi rivelano che intorno al XI secolo fu rilevata dai monaci cistercensi – gli stessi di Lucedio, affrontato in un post precedente – e che furono gli stessi religiosi ad incaricarsi della bonifica dei terreni e delle prime coltivazioni a rotazione (XVIII secolo). Il paese ospitava un’importante grangia[1], che comprendeva anche un centro fortificato di cui oggi, tristemente, non resta alcuna traccia. Leggendo attentamente l’insegna che appare sul portone della chiesa, si apprende che il piccolo paese divenne parrocchia verso la fine del XVI secolo.

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Nel XIX secolo il piccolo possedimento passò nientemeno che a Napoleone Bonaparte il quale, con un decreto datato 1807, lo vendette al cognato Camillo Borghese a compenso parziale per la cessione della galleria omonima allo stato francese. Nel 1822 la proprietà passo a Michele Benso di Cavour che, nel 1835, ne affidò la gestione al figlio Camillo. Insieme ad un gruppo di nobili, Cavour gestì egregiamente la piccola frazione riprogettando i sistemi idrici, acquistando attrezzi agricoli all’avanguardia, rimodernando il paesino a seconda delle esigenze (c’erano molti lavoratori stagionali, e quindi fu necessario edificare mense e dormitori) e testando redditizi nuovi tipi di coltura che avrebbe impiegato su larga scala in tutto il Piemonte. Affezionato a quelle terre, il conte amava trascorrervi lunghi periodi di villeggiatura, tanto che fece affrescare e ristrutturare la sua tenuta fino a portarla allo splendore che ancora oggi, parzialmente, possiamo ammirare.

L’abbandono. Non possiamo dire con certezza fino a che anno Leri fu una frazione florida e produttiva; tuttavia, sappiamo con certezza che nel 1961 era ancora abitata (sulla scuola, unico edificio “moderno” del complesso, una targa ricorda il centenario dell’unità d’Italia), e che negli anni ’80 ospitò, in piccoli prefabbricati ora smantellati, alcuni operai Enel di stanza alla centrale Ferraris. Di certo gli operai non videro mai anima viva, e questo fa presupporre che Leri fu abbandonata a cavallo degli anni ’70. I motivi dell’abbandono furono essenzialmente due:

1)       Lo sviluppo di colture intensive che resero la grangia e, più in generale, gli strumenti agricoli della tenuta tristemente obsoleti;

2)       L’inquinamento (vero o presunto) provocato dalla centrale Enrico Fermi, che al momento della sua massima operatività (intorno al 1965) era la centrale nucleare più potente del mondo.

La tesi secondo cui gli abitanti se ne sarebbero andati per il timore di una nuova centrale nucleare, ancor più vicina (la Galileo doveva essere nucleare) e deturpante per il paesaggio, è presto smentita dal fatto che la frazione fu abbandonata ben prima che il progetto venisse messo in cantiere e costruite le torri (inaugurate nel 1997). Così come è assolutamente impossibile che la frazione sia stata abbandonata perché “troppo isolata”: ci sono luoghi ben più isolati tutt’ora abitati ed economicamente prosperosi.

Dopo l’abbandono, comunque, le entrate dei diversi edifici vennero murate, ad esclusione di quelle della tenuta di Cavour che furono semplicemente chiuse a doppia mandata, forse per evitare di rovinare – in un barlume di dignità – un edificio storico di quell’importanza.

Inutile dire che le precauzioni sono servite a poco. Girando per Leri, si vede come la furia di vandali e razziatori ci abbia messo poco a sfondare quei precari sbarramenti: in tutti gli edifici le “porte” in muratura sono sfondate, e dentro le stanze non si trova praticamente più nulla. L’unico edificio che, inspiegabilmente, non è stato “profanato”, è la chiesa di Leri, che possiede ancora l’antico portone in legno. La frazione è attraversata da una strada asfaltata che, tuttavia, non dev’essere molto battuta se si considera che su di essa crescono piccole pianticelle e arbusti.

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La chiesa e la scuola. Non esistono prove scritte, ma lo stile della chiesa di Leri fa pensare che si tratti di un’opera di Francesco Gallo (1672 – 1750), architetto di Mondovì che progetto moltissimi edifici sacri piemontesi (alcuni dei quali molto vicini a Trino, come ad esempio la bellissima chiesa di Alice Castello). Dall’aspetto imponente ma slanciato, costruita di fianco alla grangia e dotata di uno spazioso cortile, la chiesa di Leri è uno degli edifici meglio conservati dell’intero complesso, e il fatto che nessun vandalo sia mai riuscito a mettervi piede fa presupporre che anche all’interno si possano ancora ammirare le sue bellezze. Vicino alla chiesa si può vedere la scuola, unico edificio “moderno” presente nel paese, costruito probabilmente a cavallo degli anni ’50 con lo scopo di garantire ai figli dei contadini di ricevere un’istruzione senza per forza doversi recare a Trino o a Livorno Ferraris. Sulla parte laterale è ancora visibile, in ottimo stato di conservazione, una targa affissa in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia (1961).

La grangia di Leri. Tra le più importanti del Piemonte, la grangia di Leri conserva ancora oggi molti particolari legati alla sua funzione: sono ancora ben visibili i bocchettoni in legno che servivano per trasportare il grano, così come è ancora presente il fiumiciattolo che, attraverso un complesso sistema di ruote e ingranaggi (le cui tracce sono ancora visibili), permetteva alle macchine agricole di muoversi spinte dalla forza dell’acqua. È interessante notare come le uniche cose che ancora “si muovono” nel territorio di Leri, oltre agli animali, siano il torrentello e le ventole di aerazione della grangia, sospinte dal vento.

La tenuta di Cavour. L’edificio di maggior interesse resta senza ombra di dubbio la tenuta appartenuta a Camillo Benso, conte di Cavour. Essa si trova in posizione defilata rispetto a quella che potrebbe definirsi la piazza del paese, ma si fa apprezzare per gli stupendi particolari architettonici, assai più curati di quelli che si vedono sugli altri edifici della frazione. Nel 2011, in occasione del centocinquantennale dell’unità d’Italia gli esterni dell’edificio sono stati ristrutturati ed è stato avviato un progetto per trasformare la tenuta in un museo, ma oggi, anno domini 2013, la tenuta è stata nuovamente lasciata a se stessa. Un vero e proprio paradosso: fuori è perfetta, dentro uno sfacelo unico. Sulla facciata dell’edificio è presente una targa commemorativa dedicata a Cavour: la data riportata su di essa (1916) indica che venne affissa in occasione  dell’intitolazione della frazione al celeberrimo statista (avvenuta, appunto, nel primo ventennio del ‘900). Lateralmente alla tenuta è ancora presente, in mezzo al grande spiazzo che poteva esserne la corte,  un magnifico pozzo in cemento. Addentrandosi dentro la tenuta – è molto facile: le porte sono spalancate – si rimane assai sorpresi nello scoprire che ogni stanza è finemente affrescata e costellata di meravigliosi particolari architettonici (volte a botte, caminetti, davanzali in marmo bianco, pavimenti pregiati). Mancano totalmente oggetti d’arredo e mobili, probabilmente tra le prime cose ad essere depredate; resta solo una grossa, pesante, stufa decorata.

Non siamo soliti sollevare questioni “politico- amministrative” nei nostri post – anche perché se non ci fossero posti abbandonati il nostro blog non esisterebbe – ma è davvero un peccato che un luogo come Leri Cavour, evidentemente sfruttabile anche a fini turistici, venga lasciato a se stesso in questo modo. Tuttavia, a livello emozionale, Leri è uno dei posti più straordinari che abbiamo visitato. Un vero e proprio paese fantasma, in cui regna un irreale silenzio. In cui la natura si sta pian piano riprendendo ciò che le appartiene, in cui le tracce umane – ancora ben visibili – sono destinate a perdersi nell’eternità delle cose. Non siamo soliti dare voti ai luoghi delle nostre escursioni, ma se lo facessimo Leri meriterebbe senza ombra di dubbio un bel dieci. Questa Pryp’jat’ in miniatura è davvero un luogo assai suggestivo.

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Thanks to Franci & Elis


[1]La parola grangia o grancia deriva da un antico termine di origine francese, granche (granaio) e indicava originariamente una struttura edilizia utilizzata per la conservazione del grano e delle sementi. Più tardi il termine fu usato per definire il complesso di edifici costituenti un’antica azienda agricola e solo in seguito assunse il valore di una vasta azienda produttiva, per lo più monastica.