BUGELLA HORROR STORY

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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“Pronto, senti c’è una fabbrica costruita nel 1850, chiusa da 40 anni, che secondo me dovresti vedere…”
In che senso chiusa da 40 anni?”
“Nel senso che l’hanno murata nel ’78”
“E come entriamo?”
“Qualcuno ha abbattuto una muratura per vedere cosa c’è dentro”
“E cosa c’è dentro?”
“….”
“Ehi?”
“Devi vedere”.

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“L’uomo nero non è morto, ha gli artigli come un corvo. Fa paura la sua voce, prendi subito la croce. Apri gli occhi, resta sveglio, non dormire questa notte…”

Tratto da A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984

La paura dell’uomo nero, del babau, è probabilmente la prima paura che abbiamo avuto, prima rappresentazione animata della più vecchia delle paure, quella del buio. Il buio è assenza di luce, OVVERO impossibilità di vedere, OVVERO qualcosa in cui un mostro potrebbe nascondersi senza farsi vedere (ma vedendo noi). Il buio è l’ignoto, lo sconosciuto, il non visto e dunque minaccioso.

Ora, girovagando per edifici in disuso la paura è un qualcosa che spesso ti porti dietro, che ti rimane li accanto, soprattutto se vai in giro da solo o comunque con compagnie ridotte. Paura di essere beccato, paura che tutto ti cada in testa, paura di fare incontri non troppo edificanti. Paura che le foto vengano male, ma questo è un altro discorso. Raramente, comunque, puoi avere paura del buio o di quello che NEL BUIO si nasconde. Innanzitutto perché andare in uno di questi luoghi di notte è totalmente inutile: come fai a fotografare? Si, certo, il modo c’è eccome, ma forse armeggiare col cavalletto o, peggio ancora, portarti dietro dei faretti non è proprio comodissimo. E poi, problema non da poco, dove li attacchi i faretti? Pretendi di entrare in una fabbrica abbandonata e trovarci l’elettricità? Troppo facile. Altra ipotesi, puoi usare il flash. Se ti piace, fai pure.

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Cosa succede però quando entri in una fabbrica le cui finestre sono state murate? Ci entrerai pure di giorno, ma se la luce, per ovvie ragioni, non passa, buio rimane.

Siamo in due. Entriamo da una scala che porta direttamente al primo piano. Al principio di questa scala si vedono i segni dei mattoni che muravano la porta. Entriamo armati soltanto di torce e macchina fotografica. Arrivati al termine della scala ci si ritrova nella parte “illuminata”, quella con le finestre.

Guardando verso il buio, non è difficile accorgersi

a) delle dimensioni di questo posto

b) del fatto che basta spostarsi di qualche metro dalle finestre per sprofondare nel buio più assoluto

Colonne e archi, archi e colonne, apparentemente. Nient’altro.

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Il pavimento non sembra quello di una fabbrica: è un selciato tipicamente ottocentesco, in cui le pietre sono incastrate nel calcestruzzo. Ancora più strano se calcolate che siamo al primo piano. Non proprio un pavimento/soletta che sa di leggerezza e slancio. Su alcune colonne ci sono delle scritte: “modificata il 6.8.1927”. Be, dai, la manutenzione è stata fatta abbastanza recentemente. Si e no 90 anni.

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Accendiamo le torce, andiamo verso il buio.

Apparentemente questo posto è tutto uguale. In qualunque direzione ci voltiamo, i nostri (esili, lasciatemelo dire) fasci di luce illuminano colonne, archi e selciato.

Proviamo a spegnere le torce. Buio pesto. Chi vuole tornare indietro, lo faccia ora.

Ormai convinti della monotonia del posto, non ci accorgiamo di essere arrivati davanti ad un’apertura nel muro. Mettiamo la testa dentro. Un lunghissimo, stretto corridoio senza sbocchi si appoggia a murature costruite in tempi più recenti. Interessante la scala che porta al piano di sopra. Porterebbe, se non fosse stata murata.

Torniamo nella fabbrica. Una torcia investe un oggetto enorme, davvero inquietante per forma e dimensioni. Ci avviciniamo: è una gigantesca cisterna, alta il doppio di noi (calcolate che arriva fino al soffitto, ovvero circa 4 metri) e lunga almeno una decina di metri. Abbandonata lì, come il relitto di una mastodontica nave colata a picco 40 anni prima. Rigenerato il 10.11.1975.

Anche qui come manutenzione possiamo stare tranquilli.

Attorno ci sono strani macchinari, compressori, tubature piene di rubinetti che oramai la ruggine avrà chiuso per sempre. Questa sì che è archeologia industriale.

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Dietro allE cisternE (avete capito bene, ce ne sono due), si entra in una stanza in cui ci sono ancora dei vecchi motori a gasolio e delle pompe che, probabilmente, facevano girare l’acqua dentro questo posto. Sul muro, una vecchia lavagna ancora scritta. Quel gesso è li sopra da almeno 40 anni.

Chissà se viene via con un cancellino.

Usciti dalla stanza dei motori (possiamo dire la “sala macchine”?), un altro scorcio inquietante cattura la nostra attenzione. Una serie di strani portoni sembrano chiudere delle gigantesche gabbie costruite sul muro.

Ora, io non è che per principio credo a certe cose. Però trovarsi lì, a 100 metri dall’uscita, al buio totale, dietro a una cisterna grande come quella di un’autobotte e davanti a delle gabbie alte 4 metri non è che mi sentivo proprio tranquillo tranquillo.

Entriamo?

Bè, ormai siamo qui.

Et voilà.

Nessun mostro. Soltanto un magazzino pieno di viti, bulloni, pezzi di ricambio. Un magazzino costruito come la tana di Freddy Krueger ma pur sempre un magazzino. Dentro c’è pure, appeso a un muro, un setaccio pieno di una qualche roccia. Esattamente lì dove l’avevano lasciato, con ancora dentro il materiale che veniva setacciato.

Continuiamo.

Un rumore, come di passi. Ecco. Trovato il mostro, penso.

Taccio per un po’. Poi trovo il coraggio di parlare al mio compagno d’avventura.

“Ma tu lo senti?”

“Sì”.

Fiu, penso, menomale. Cominciamo a cercare la fonte del rumore, che non sembra muoversi ma, complice la stramba architettura di questo posto, resta mooooolto difficile da localizzare. Dopo un po’ vedo, illuminato dalla mia torcia, un luccichio anomalo. Ci avviciniamo. Ecco il nostro mostro: un tubo perde dell’acqua che, a goccioloni, batte su un vecchio pianale di legno.

Ora, è vero che il mostro non c’era, ma il ritrovamento rimane lo stesso inquietante. Perchè dovrebbe passare del liquido in quei tubi vuoti da anni? Fuori c’è pure il sole, non può essere acqua piovana. Mah.

Dopo aver visto una stanza senza pavimento (ma con un simpatico asse che invitava a salire) e un mucchio (ma un mucchio davvero) di vecchi telai di legno, finiamo in una sorta di grande cella ospitante, oltre che delle simpatiche damigiane (chissà se questo vino è invecchiato bene?), dei filtri in cui un tempo doveva passare dell’aria calda.

Passiamo vicino ad uno stanzone in cui troneggia un cartello scritto con pennello e una calligrafia impeccabile, come se anche un banalissimo foglio informativo dovesse conservare uno stile adatto alla pregiata materia lavorata. Oggi l’avrebbero scritto con un Uniposca, magari regalandoci pure qualche bell’errore grammaticale. Tra corridoi, gallerie e migliaia di archi, torniamo al punto in cui eravamo entrati. Spegniamo le torce.

La luce del giorno ci rassicura. Non è stato proprio un giro di quelli facili. Speriamo almeno che le foto siano venute bene. Sicuramente sono diverse dalle altre.

Più scure. O forse, più OSCURE. Vedete voi. In fondo, è Halloween bellezza!

 [Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2015]

UNA TIPICA AZIENDA AGRICOLA VERCELLESE

VIAGGIO AL PAESE FANTASMA DI VETTIGNE’

Testi e fotografie di Riccardo PomaDSC_0168

E’ da qualche anno che ci giriamo intorno, raccontandovi posti lì vicini come il piccolo cimitero abbandonato, il Maialetto e quella costruzione che appare nell’articolo L’isola (per la cronaca, le nostre sono le uniche ed ultime foto scattate a quel posto: “l’isola” è stata abbattuta per far spazio, indovinate un po’, ad altre risaie). Ora, finalmente, siamo arrivati al dunque, ovvero alla piccola frazione di Vettignè, comune di Santhià, un vero e proprio piccolo paese (una volta era addirittura comune dipendente, con Chiesa, scuole, osteria, botteghe) costruito in the middle of nowhere, che dalle nostre parti si traduce con “in mezzo alle risaie”.

DSC_0211La storia. Intorno all’anno mille vennero edificati i primi edifici, esattamente dove ora vediamo la chiesetta e lo stabile principale. Perchè proprio li? Le risaie non c’erano ancora, dunque perché costruire edifici nel bel mezzo del nulla? Perchè quelle prime, antiche mura furono edificate sul crocicchio tra due trafficatissime “vie” di comunicazione, la via Svizzera e la via Francigena. Il nome Vettignè deriva proprio da Vectigal, il dazio che si pagava per ottenere il diritto di passaggio dal borgo. Grazie a questo stratagemma, gli abitanti di Vettignè si arricchirono velocemente, e nel XV secolo il borgo venne ampliato: dietro il nucleo originario fu edificato un lussuoso castello, con tanto di torre a pianta circolare di ragguardevole altezza. Intorno al 1500, causa aumento demografico, vennero costruiti i due bracci laterali, che chiusero queste prime strutture a formare uno spazioso cortile. Infine, con l’avvento delle colture risicole (1700 circa), Vettignè divenne una vera e propria azienda agricola. Che, vista la dimensione degli ampliamenti, era probabilmente tra le più floride della zona: partendo dal nucleo originario, infatti, sui lati vennero edificati una serie importante di nuovi edifici atti ad ospitare la manovalanza necessaria per gestire tutta quella terra. Il già spazioso borgo di Vettignè, dunque, divenne una cascina grandissima, un piccolo paesino autonomo (fu comune tra il 1700 e il 1800) dall’enorme cortile, ancora oggi tra i pochissimi interamente “cintato”.
Il castello appartene a lungo ai Vialardi di Verrone, per poi passare ai Dal Pozzo e infine al ramo Savoia-Aosta.

La leggenda. Secondo una leggenda che ancora oggi molti considerano veritiera, il piccolo Borgo di Vettignè diede i natali al perfido capitano di ventura Bonifacio “Facino” Cane (1360 – 1412), crudele mercenario che terrorizzò l’Italia settentrionale tra il XIV e il XV secolo. Al soldo di Teodoro II del Monferrato, che gli affiancò – si dice – ben 400 cavalieri, tra il 1391 e il 1397 Facino Cane invase e saccheggiò gran parte del Piemonte, lasciandosi dietro un’impressionante scia di sangue e violenza. Gli unici borghi risparmiati dalla sua furia furono Santhià e Vettignè, cosa che indusse molti a pensare che qui egli fosse venuto al mondo. Altre fonti sostengono che Cane fosse nato a Casale Monferrato, ma ancora oggi sono molte le voci fuori dal coro.

Tempi (più o meno) recenti. Nonostante appartengano ad epoche più recenti, anche gli edifici posti fuori dalle mura conservano un grande interesse. Dietro le mura posteriori c’è ancora il bellissimo mulino, attraversato dal canale e perfettamente conservato con i suoi ingranaggi e le sue ruote. Vicino, un edificio risalente agli anni ’30 – ’40 (a svelarne la data di costruzione è l’architettura, molto “fascista”) che ospitò refettorio (piano terra) e dormitorio (primo piano) per le mondine di stanza a Vettignè. Ancora conservati sono i bagni, le docce, i lavabi e una piccola fontana ancora attiva. Altra testimonianza degli influssi fascisti sull’agricoltura locale è la ancora visibile, enorme scritta su uno dei muri esterni, che riporta il celebre motto “è l’aratro che lascia il solco, è la spada che lo difende”. Più antichi sono invece la chiesa, risalente al 1742 (costruita perché quella del borgo era diventata piccola per tutti quegli abitanti), e il piccolo cimitero, databile intorno al 1800 e costruito distante dalle abitazioni per ovvi motivi.

Oggi. A partire dal 1960 – col boom economico, la corsa alla fabbrica e alla città, l’avvento di nuovi metodi agricoli – il piccolo borgo di Vettignè cominciò pian piano a spopolarsi. Gli ultimi abitanti fecero i bagagli all’inizio degli anni ’80, nonostante alcuni edifici (la scuola, l’osteria) fossero ancora regolarmente funzionanti. Dal 1998 la parte principale del borgo è in mano alla gentilissima e volenterosa Enrica, che ha ristrutturato parti del complesso e, dal 2006, le ha adibite a grazioso Bed and breakfast. Tuttavia, rimettere in sesto Vettignè nella sua interezza è operazione assai costosa e difficilmente sostenibile da privati. Come se non bastasse, l’ala verso Santhià è stata in tempi recenti divelta da una potentissima tromba d’aria, mentre parte della vecchia casa padronale, uno degli edifici più antichi del complesso, è crollata sotto il peso dei suoi secoli. Le vecchie abitazioni, le stalle, il castello, la chiesa, stanno tornando polvere a causa degli anni e della poderosa natura che, priva di interventi umani, si sta riprendendo le terre che le appartennero.
Un gran peccato, perchè Vettignè resta un luogo magico e unico, un glorioso esempio dell’antica economia agricola vercellese. Non è difficile immaginarsi quell’immenso cortile ancora popolato: bambini che corrono, mucche che pascolano, i vecchi che se la raccontano, le donne che passeggiano coi neonati, gli uomini che scaricano carri trainati da buoi e si godono il meritato riposo dentro l’osteria. Come in una vera e propria città. Come in una comunità, di quelle che da tempo non siamo più in grado di creare.

NOTA: un immenso grazie a Enrica, per la sua disponibilità e per averci fatto scoprire questo angolo di paradiso. Un paradiso iscritto ai Luoghi del Cuore, quindi, in cambio della storia che vi ha e che vi abbiamo raccontato, regalategli il vostro voto.

Una rarissima cartolina di Vettignè, datata 1948. A destra, si può vedere la parte medievale oggi crollata.

Una rarissima cartolina di Vettignè, datata 1948. A destra, si può vedere la parte medievale oggi crollata.

Thanks to Franci

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LA SOLITUDINE DELLA TORRE ROSSA

Testi e fotografie di Riccardo Poma6

Sulla strada che conduce a Gattinara da Masserano pochi la notano, nonostante la sua sagoma sia ben visibile dietro la zona residenziale. È strana perché è da sola. È raro che di un forte resti in piedi soltanto la torre. Anzi. Di solito è la prima a cadere. Perché è più alta, visibile e, quindi, facile da colpire. Invece qui è successo tutto il contrario. La torre è rimasta sola, in mezzo a una radura, senza le costruzioni di cui una volta era il faro più alto.

Sul sito del comune di Roasio si legge:
“Su di un colle situato ai limiti dell’abitato di Roasio S. Maurizio, a qualche centinaio di metri a nord della chiesa parrocchiale omonima, sono visibili per un’ altezza di alcuni metri, i resti murari di una forte torre a pianta quadrata (m 4,50 di lato), costruita con pietre ben squadrate agli angoli e con corsi regolari di ciottoli a spina di pesce, sottolineati da linee tracciate nella malta, ottimamente conservata. Il piccolo pianoro doveva poi verosimilmente essere contornato da un recinto, del quale non sono visibili resti, ma che è in qualche modo richiamato dal terrazzamento contornante l’altura e dalla parcellazione catastale. Il tipo di muratura è genericamente databile in zona al XII-XIII secolo. Il sito, totalmente in abbandono, non permette di valutare in modo rassicurante lo stato di conservazione del rudere, evidentemente in lento disfacimento”

Wikipedia dice invece che la torre è
“andata in gran parte distrutta dagli Spagnoli unitamente all’attiguo Forte, raso al suolo il 7 febbraio 1558 in seguito alla Guerra tra l’Imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I”.

Tower

Certamente le veneziane ancora visibili sulle finestre non appartengono al 1500: qualcuno l’ha restaurata. Per farne cosa, non si sa. Magari solo per darle una parvenza di vita. O magari per andare lassù e guardare il panorama. Intanto resta lì, apparentemente da sola, in realtà in compagnia degli alberi, degli uccellini, di chi ancora sente il bisogno di perdersi nei boschi.

Thanks to Francy

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2014]

LA CITTA’ (FANTASMA) DELLA LANA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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BIELLA. Su un blog che parla anche (e soprattutto) di edifici presenti sul territorio biellese, non poteva mancare un post che raccontasse da vicino la “Biella tessile”, una sorta di civiltà ormai estinta e decaduta (i grandi brand che ancora si salvano appartengono quasi tutti a stranieri) sulla quale si sviluppavano i ritmi e le abitudini di un’intera città. L’industria tessile biellese conobbe un periodo di grande prosperità che attraversò tutto il ‘900, salvo poi spegnersi agli albori del terzo millennio. Biella non era solo una capitale del tessile italiano: il suo valore industriale era riconosciuto anche a livello internazionale.

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La maggior parte di questi lanifici (come il lanificio Cerruti, tra i pochi ancora particolarmente attivi) venne edificata sulle sponde del cervo, fonte inesauribile di acqua da utilizzare per le operazioni più disparate. Tolte le implicazioni legate all’inquinamento, che sarebbero sorte soltanto molto tempo dopo (molte ditte si liberavano degli scarti lasciandoli “cadere” lungo il torrente), questa ubicazione si dimostrò vincente, e garantì ai lanifici biellesi una prosperità inaspettata.

Al giorno d’oggi, vi sono almeno due grossi complessi tessili abbandonati nella zona di Biella città. Il primo si trova sul Cervo, poco prima del ponte di Chiavazza, e negli ultimi anni è stato ristrutturato dal ministero dei beni culturali. Addirittura, dentro uno di questi edifici riportati alla vita (per la precisione la manifattura Trombetta), è stata aperta cittadellarte, una fondazione museale voluta e gestita dall’artista Michelangelo Pistoletto.

Ai lanifici Rivetti, invece, non è andata così bene.

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Situati poco più giù rispetto ai lanifici Trombetta – dopo il ponte di Chiavazza e prima della stazione ferroviaria, ma sempre lungo il corso del Cervo – i complessi del lanificio furono edificati intorno al 1879, come sedi distaccate dello stabilimento principale di Mosso. Giuseppe Rivetti, fondatore dell’impero, comprese subito l’importanza di quella locazione: a ridosso di un torrente, vicino ad una stazione ferroviaria[1], in una posizione periferica che permetteva di ampliare il complesso, ben visibile da chiunque giungesse a Biella dalla pianura. Per queste ragioni, lo stabilimento biellese divenne presto il cuore pulsante dell’azienda, e dal 1900 circa iniziò a specializzarsi nella produzione di (richiestissimi) cascami di rayon. Il complesso si estendeva su una superficie di 47mila mq, per una valore attuale di immobili e terreni vicino ai 4 milioni di euro.

4Si tratta di due foto scattate dal ponte sul Cervo. Unite, mostrano i lanifici Rivetti in tutta la loro lunghezza [clicca sulla foto per vederla in HD]

L’attuale via Repubblica ospitava l’ingresso dei lanifici, che si estendevano a perdita d’occhio fino a metà dell’odierna via Carso. Lo spiazzo conosciuto come il “parcheggione” e la strada che collega via Cernaia a via Carso non esistevano: al loro posto c’erano gli edifici del lanificio, “uniti”, che solo nel 1987 furono abbattuti per modificare la viabilità del quartiere. Osservando l’ultima parte del complesso di via Carso ben si può comprendere questa “rivoluzione spaziale”. Sulla parete che da verso la strada, infatti, sono ancora ben visibili i segni dell’abbattimento/ smembramento di cui fu vittima l’edificio: la parete mostra le tracce di un altro stabile appoggiato su di essa, così come le travi in ferro tagliate di netto suggeriscono la presenza di una continuazione dell’edificio.

“Il complesso dei lanifici Rivetti si presentava come una vera e propria città industriale adiacente alla città; edifici pluriplano adibiti agli uffici e ai servizi erano accostati a unità produttive a sviluppo orizzontale” (Biella e Provincia, Touring Editore, 2012, p.51)

Tra il 1939 e il 1941 i Rivetti affidarono all’architetto Giuseppe Pagano l’ampliamento del lanificio. Pagano, la cui storia merita un approfondimento particolare[2], concepì uno stabile modernissimo – in contrasto con quello ottocentesco situato a Nord – che rimane anche uno degli esempi più significativi di quell’architettura razionalista tanto ammirata dal Duce: nessun orpello estetico o cromatico, nemmeno i più elementari; impronta visiva tanto imponente quanto “ordinata”; massima importanza alla “funzionalità” e minima importanza all’estetica. L’edificio si compone di un grosso corpo centrale parallelo alla strada, costruito su cinque piani in cui la lavorazione si svolgeva, contrariamente a quanto avveniva nelle fabbriche ottocentesche, dall’alto verso il basso. Pagano calcolò che sarebbe stato meno dispendioso trasportare in alto le materie prime, lavorarle lungo i piani e infine farle scendere al piano terra come prodotto finito, piuttosto che farle partire dal basso per poi dover nuovamente “far scendere” il lavorato. Perpendicolarmente all’edificio centrale, vennero costruiti due corpi di fabbrica adiacenti che culminavano con due altissime torri rettangolari. Tra le innovazioni architettoniche presenti nell’edificio, si fa notare la copertura “a shed” del troncone Sud, una sorta di soffitto in vetro che permetteva miglior illuminazione e maggior circolazione dell’aria. Dopo alcuni lavori di ampliamento, svolti intorno al 1953, il nuovo edificio venne ceduto dai Rivetti (che vendettero le azioni e, di fatto, condannarono a morte l’azienda) e divenne una pettinatura autonoma, chiamata appunto Nuova pettinature riunite.

Oggi

Non sappiamo con certezza in che anno gli stabilimenti chiusero i battenti. Sicuramente, a metà degli anni ’90, alcuni padiglioni delle Pettinature Riunite erano ancora aperti, nonostante lavorassero ad un regime piuttosto ridotto. Oggi, invece, entrambi gli stabili (sia quello ottocentesco che quello progettato da Pagano), versano in pessime condizioni. Sono ormai due stabili distinti, in quanto tra loro è stata costruita la moderna sede della Biverbanca. L’entrata del lanificio, sita in via Repubblica, è stata restaurata e il palazzo alle sue spalle è stato ribattezzato Palazzo Rivetti. Per quanto riguarda i due grossi stabili di via Carso, invece, il degrado è oramai totale e selvaggio.

Torre Nord

Entrare dentro lo stabilimento ottocentesco è piuttosto facile: c’è un buco nella recinzione che pare fatto apposta per far passare un visitatore alla volta. L’importante è avere lo stomaco forte: dopo circa una decina di metri tra erbacce, alberelli, siringhe, vetri rotti, si arriva nel piazzale della fabbrica; il giro turistico può partire, ma state attenti perché lo stabilimento è diventato una casa per gli homeless della zona, e non tutti – ad esempio quelli che ho trovato io – sono felici di farvi fotografare il loro giaciglio. Per quanto riguarda invece lo stabilimento moderno, quello progettato da Pagano, l’entrata è oramai impossibile. Ci sono lucchetti e porte chiuse ovunque, e l’unico muretto che permette di scavalcare ed entrare (ammesso poi che si riesca ad uscire una volta dall’altra parte) si affaccia su una banca sorvegliata da decine di telecamere.

Geometrie

Enormi, freddi, divorati dalle piante, silenziosi (apparentemente), questi due enormi edifici sono la testimonianza diretta della fine di una civiltà, la pietra tombale di un’industria che ha conosciuto lo splendore ed ora è ridotta ad uno scheletro. Scheletri, spodestati dal tetto del mondo e adatti soltanto a riparare qualche poveretto senza una casa. Almeno, una funzione ce l’hanno ancora. Forse non è proprio quella che si immaginava il “funzionalista” Pagano, ma oramai cambia poco. Finchè nessuno troverà il coraggio di fare qualcosa con questi edifici (che, ricordiamolo, sono la prima immagine della città per chi arriva dalla pianura), allora forse è giusto che appartengono a loro, agli homeless, simbolo e specchio di una città che ha conosciuto la ricchezza e che ora, stanca e abbandonata, non riesce più a sollevarsi. Proprio come i senzatetto, proprio come gli stabilimenti dei lanifici Rivetti.

La Nuova Pettinatura per chi arriva a Biella

A questo punto desidero ringraziare l’assessorato alla cultura del comune di Biella, che gentilmente mi ha suggerito i nomi di avvocati, curatori fallimentari, e proprietari degli edifici, insomma di chi avrebbe potuto portarmi dentro alla struttura. Cosa che, ovviamente non è successa (a dirla tutta non abbiamo nemmeno ricevuto risposta).

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

 


[1]La stazione ferroviaria di Biella si trovava in quella che oggi è Via Lamarmora. Durante il fascismo, la stazione venne spostata nella posizione attuale: in periferia, perpendicolarmente a via Roma, evitando così che i treni entrassero in centro città. La nuova collocazione favorì sicuramente i Rivetti, in quanto i binari passavano (e passano tutt’ora) a pochi metri dagli stabili. Addirittura, vennero approntate alcune modifiche strutturali che permettevano, attraverso carroponti e gru, di caricare i prodotti lanieri direttamente sui convogli.

[2]Giuseppe Pagano (1896 – 1945) fu un importantissimo architetto funzionalista italiano. Dopo essere stato per anni membro attivo del regime fascista, divenne partigiano e morì prigioniero nel campo di concentramento di Mauthausen, tre giorni prima che la guerra finisse.