LA VILLA DEL CONTE E ALTRE STORIE

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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Torrione (VC). “Ultimo” pezzettino di vercellese (cinquanta metri e ci si ritrova in provincia di Alessandria), la piccolissima frazione di Torrione, comune di Costanzana, si trova a meno di tre km da Saletta e a circa venti da Lucedio, entrambi luoghi “magici” già affrontati su questo blog. Costruita intorno ad un castello, unico edificio ristrutturato e abitato, è ormai lasciata a se stessa nonostante alcuni edifici di grande interesse: la chiesa, la cui facciata presenta statue e decorazioni di livello; la piccola, pittoresca scuola elementare; un grosso edificio adiacente al complesso sacro; un piccola cappella decorata; una signorile tenuta, appartenuta probabilmente al nobile del luogo, colui che edificò anche il castello. Facilmente visitabile – la strada la attraversa dall’inizio alla fine – la frazione dimenticata di Torrione è un’affascinante tappa sia per i cercatori di luoghi disabitati che per gli studiosi d’arte del territorio.

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Thanks to Franci

TERRA ROSSA parte due – DETTAGLI

Testi e fotografie di Riccardo Poma

Per TERRA ROSSA parte uno cliccare QUI.

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Siamo tornati alla suggestiva ex fornace di Terra Rossa, primo edificio abbandonato che abbiamo fotografato nonché oggetto del primo post apparso su vuotiaperdere. Ci siamo tornati con un diverso obiettivo, inteso nelle ambedue concezioni del termine: con l’o(b)biettivo di catturare alcuni particolari che ci erano sfuggiti e con un nuovo obiettivo fotografico dotato di uno zoom più lungo che ci facesse arrivare con semplicità a quegli stessi particolari. Ci siamo soffermati sui quadri elettrici, sui lampadari, sui manometri, sulle ventole di aerazione. Sulle evocative geometrie date dalle intelaiature ormai scarne dei tetti e dal contrasto tra la verticalità dei finestroni e l’orizzontalità di travi e muri, sull’affascinante prospettiva che si crea costeggiando il lunghissimo forno (una prospettiva che dona alla fabbrica l’aspetto di una “cattedrale del mattone”).

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In mezzo a questo santuario delle cose perdute, a questo monumento dell’abbandono selvaggio, ancora svettano montagne di gialli mattoni pieni e minacciosi lastroni di eternit. Ritrovando questi particolari, si è accentuata in queste nuove immagini l’idea – già balenata nei nostri primi viaggi – di un abbandono rapido e selvaggio. Sembra che, da un minuto all’altro, qualcuno abbia detto agli operai di prendere i propri effetti e fuggire, lasciando tutto com’era. Lasciando lì quelle altissime montagne di mattoni, lasciando aperta la porta del forno, lasciando gli interruttori su “acceso” mentre qualcuno, dall’alto, staccava direttamente la corrente elettrica. Quello che più ci piace di questo enorme luogo abbandonato (lungo 170 metri, alto 15 e largo 70) forse è proprio questo: l’impressione, più che di un abbandono, di una fuga.

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È raro trovare posti abbandonati in questo stato: solitamente, coloro che lasciano un edificio con la convinzione di non tornarvi mai più prima “mettono in ordine”. È un paradosso, ma capita sempre. Si chiudono le porte, si fanno sparire le merci prodotte, si vendono i macchinari ancora utilizzabili. Alla fornace questo non è mai accaduto. Tutto è ancora lì, fermo e silenzioso ma ancora perfettamente “composto”, come se da un giorno all’altro qualcuno potesse riattivare la corrente, spazzare via quei mattoni ammuffiti, aggiustare i vetri alle finestre e ricominciare a cuocere l’argilla.

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Thanks to Franci

FUOCO SULL’ ACQUA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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BIELLA. La FOR (Fonderie Officine Riunite) fu, tra gli anni ’30 e gli anni ’90, una delle più importanti fonderie del territorio. Tra tutte le fabbriche biellesi che costeggiano il corso del torrente Cervo (quasi tutte oramai tristemente abbandonate), è l’unica fonderia: tutte le altre erano aziende che lavoravano nel tessile. Difficile comprendere il perché di questa strana location. Probabilmente, prima di essere convertita in fonderia, anche la FOR era una fabbrica tessile. Ma non è solo l’unica fonderia adagiata sul Cervo: è anche una delle poche fonderie abbandonate rintracciabili sul territorio. L’industria metalmeccanica non ha mai avuto grandi stabilimenti nel biellese, ma quei pochi sono attivi ancora oggi. La FOR, col suo immenso salone ormai divorato dal verde e le sue molteplici vetrate in decadenza, resta una delle fabbriche più caratteristiche del biellese, se non altro per la sua “unicità”.

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IL PAESE FANTASMA DI LERI

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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Ho sempre visto la cittadina di Pryp’jat’ come una sorta di El Dorado per tutti coloro che, come noi, amano esplorare e fotografare ogni sorta di luogo abbandonato presente sul pianeta. Lo scenario che ci si ritrova davanti addentrandosi nella “cittadina” (tra virgolette, considerando che contava 47mila abitanti), completamente disabitata dal 1986, anno del disastro nucleare che colpì la vicina Chernobyl, è uno scenario assolutamente (e tristemente) unico al mondo: un’intera città, ancora in piedi, con tutte le case, le piazze, le strade, al loro posto, piscine olimpioniche, luna park, scuole, fabbriche, tutto totalmente vuoto, silenzioso, privo di qualsiasi presenza umana. Pryp’jat’, per dirla con un termine rubato a cinema e letteratura, è l’unico scenario post-apocalittico “reale” che esista al mondo.

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Questo breve excursus non serve tanto per creare paragoni azzardati (e forse un po’ troppo pretestuosi), quanto per descrivere le sensazioni che ci hanno attraversato arrivando a Leri Cavour, piccola frazione disabitata appartenente al comune di Trino (Vercelli), sul cui territorio sorgono le imponenti torri della centrale termoelettrica Galileo Ferraris (si trovano a poco più di duecento metri dal centro del paese) e, poco distante, l’ex centrale nucleare Enrico Fermi. Ora, razionalmente sappiamo bene che quelle torri sono termoelettriche (anche se il progetto originario, fatto prima del referendum sul nucleare del 1987, prevedeva che fossero un’altra centrale nucleare), che la centrale Enrico Fermi è ormai “bonificata” e che non è mai avvenuto un incidente durante i suoi anni di attività, ma a livello d’impatto visivo – siamo assai bravi nel suggestionarci da soli – la piccola, sperduta Leri non ha potuto che riportarci alla mente la cittadina di Pryp’jat’.

Cenni storici. Non si conosce esattamente il periodo in cui fu costruita la piccola frazione di Leri: i primi dati certi rivelano che intorno al XI secolo fu rilevata dai monaci cistercensi – gli stessi di Lucedio, affrontato in un post precedente – e che furono gli stessi religiosi ad incaricarsi della bonifica dei terreni e delle prime coltivazioni a rotazione (XVIII secolo). Il paese ospitava un’importante grangia[1], che comprendeva anche un centro fortificato di cui oggi, tristemente, non resta alcuna traccia. Leggendo attentamente l’insegna che appare sul portone della chiesa, si apprende che il piccolo paese divenne parrocchia verso la fine del XVI secolo.

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Nel XIX secolo il piccolo possedimento passò nientemeno che a Napoleone Bonaparte il quale, con un decreto datato 1807, lo vendette al cognato Camillo Borghese a compenso parziale per la cessione della galleria omonima allo stato francese. Nel 1822 la proprietà passo a Michele Benso di Cavour che, nel 1835, ne affidò la gestione al figlio Camillo. Insieme ad un gruppo di nobili, Cavour gestì egregiamente la piccola frazione riprogettando i sistemi idrici, acquistando attrezzi agricoli all’avanguardia, rimodernando il paesino a seconda delle esigenze (c’erano molti lavoratori stagionali, e quindi fu necessario edificare mense e dormitori) e testando redditizi nuovi tipi di coltura che avrebbe impiegato su larga scala in tutto il Piemonte. Affezionato a quelle terre, il conte amava trascorrervi lunghi periodi di villeggiatura, tanto che fece affrescare e ristrutturare la sua tenuta fino a portarla allo splendore che ancora oggi, parzialmente, possiamo ammirare.

L’abbandono. Non possiamo dire con certezza fino a che anno Leri fu una frazione florida e produttiva; tuttavia, sappiamo con certezza che nel 1961 era ancora abitata (sulla scuola, unico edificio “moderno” del complesso, una targa ricorda il centenario dell’unità d’Italia), e che negli anni ’80 ospitò, in piccoli prefabbricati ora smantellati, alcuni operai Enel di stanza alla centrale Ferraris. Di certo gli operai non videro mai anima viva, e questo fa presupporre che Leri fu abbandonata a cavallo degli anni ’70. I motivi dell’abbandono furono essenzialmente due:

1)       Lo sviluppo di colture intensive che resero la grangia e, più in generale, gli strumenti agricoli della tenuta tristemente obsoleti;

2)       L’inquinamento (vero o presunto) provocato dalla centrale Enrico Fermi, che al momento della sua massima operatività (intorno al 1965) era la centrale nucleare più potente del mondo.

La tesi secondo cui gli abitanti se ne sarebbero andati per il timore di una nuova centrale nucleare, ancor più vicina (la Galileo doveva essere nucleare) e deturpante per il paesaggio, è presto smentita dal fatto che la frazione fu abbandonata ben prima che il progetto venisse messo in cantiere e costruite le torri (inaugurate nel 1997). Così come è assolutamente impossibile che la frazione sia stata abbandonata perché “troppo isolata”: ci sono luoghi ben più isolati tutt’ora abitati ed economicamente prosperosi.

Dopo l’abbandono, comunque, le entrate dei diversi edifici vennero murate, ad esclusione di quelle della tenuta di Cavour che furono semplicemente chiuse a doppia mandata, forse per evitare di rovinare – in un barlume di dignità – un edificio storico di quell’importanza.

Inutile dire che le precauzioni sono servite a poco. Girando per Leri, si vede come la furia di vandali e razziatori ci abbia messo poco a sfondare quei precari sbarramenti: in tutti gli edifici le “porte” in muratura sono sfondate, e dentro le stanze non si trova praticamente più nulla. L’unico edificio che, inspiegabilmente, non è stato “profanato”, è la chiesa di Leri, che possiede ancora l’antico portone in legno. La frazione è attraversata da una strada asfaltata che, tuttavia, non dev’essere molto battuta se si considera che su di essa crescono piccole pianticelle e arbusti.

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La chiesa e la scuola. Non esistono prove scritte, ma lo stile della chiesa di Leri fa pensare che si tratti di un’opera di Francesco Gallo (1672 – 1750), architetto di Mondovì che progetto moltissimi edifici sacri piemontesi (alcuni dei quali molto vicini a Trino, come ad esempio la bellissima chiesa di Alice Castello). Dall’aspetto imponente ma slanciato, costruita di fianco alla grangia e dotata di uno spazioso cortile, la chiesa di Leri è uno degli edifici meglio conservati dell’intero complesso, e il fatto che nessun vandalo sia mai riuscito a mettervi piede fa presupporre che anche all’interno si possano ancora ammirare le sue bellezze. Vicino alla chiesa si può vedere la scuola, unico edificio “moderno” presente nel paese, costruito probabilmente a cavallo degli anni ’50 con lo scopo di garantire ai figli dei contadini di ricevere un’istruzione senza per forza doversi recare a Trino o a Livorno Ferraris. Sulla parte laterale è ancora visibile, in ottimo stato di conservazione, una targa affissa in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia (1961).

La grangia di Leri. Tra le più importanti del Piemonte, la grangia di Leri conserva ancora oggi molti particolari legati alla sua funzione: sono ancora ben visibili i bocchettoni in legno che servivano per trasportare il grano, così come è ancora presente il fiumiciattolo che, attraverso un complesso sistema di ruote e ingranaggi (le cui tracce sono ancora visibili), permetteva alle macchine agricole di muoversi spinte dalla forza dell’acqua. È interessante notare come le uniche cose che ancora “si muovono” nel territorio di Leri, oltre agli animali, siano il torrentello e le ventole di aerazione della grangia, sospinte dal vento.

La tenuta di Cavour. L’edificio di maggior interesse resta senza ombra di dubbio la tenuta appartenuta a Camillo Benso, conte di Cavour. Essa si trova in posizione defilata rispetto a quella che potrebbe definirsi la piazza del paese, ma si fa apprezzare per gli stupendi particolari architettonici, assai più curati di quelli che si vedono sugli altri edifici della frazione. Nel 2011, in occasione del centocinquantennale dell’unità d’Italia gli esterni dell’edificio sono stati ristrutturati ed è stato avviato un progetto per trasformare la tenuta in un museo, ma oggi, anno domini 2013, la tenuta è stata nuovamente lasciata a se stessa. Un vero e proprio paradosso: fuori è perfetta, dentro uno sfacelo unico. Sulla facciata dell’edificio è presente una targa commemorativa dedicata a Cavour: la data riportata su di essa (1916) indica che venne affissa in occasione  dell’intitolazione della frazione al celeberrimo statista (avvenuta, appunto, nel primo ventennio del ‘900). Lateralmente alla tenuta è ancora presente, in mezzo al grande spiazzo che poteva esserne la corte,  un magnifico pozzo in cemento. Addentrandosi dentro la tenuta – è molto facile: le porte sono spalancate – si rimane assai sorpresi nello scoprire che ogni stanza è finemente affrescata e costellata di meravigliosi particolari architettonici (volte a botte, caminetti, davanzali in marmo bianco, pavimenti pregiati). Mancano totalmente oggetti d’arredo e mobili, probabilmente tra le prime cose ad essere depredate; resta solo una grossa, pesante, stufa decorata.

Non siamo soliti sollevare questioni “politico- amministrative” nei nostri post – anche perché se non ci fossero posti abbandonati il nostro blog non esisterebbe – ma è davvero un peccato che un luogo come Leri Cavour, evidentemente sfruttabile anche a fini turistici, venga lasciato a se stesso in questo modo. Tuttavia, a livello emozionale, Leri è uno dei posti più straordinari che abbiamo visitato. Un vero e proprio paese fantasma, in cui regna un irreale silenzio. In cui la natura si sta pian piano riprendendo ciò che le appartiene, in cui le tracce umane – ancora ben visibili – sono destinate a perdersi nell’eternità delle cose. Non siamo soliti dare voti ai luoghi delle nostre escursioni, ma se lo facessimo Leri meriterebbe senza ombra di dubbio un bel dieci. Questa Pryp’jat’ in miniatura è davvero un luogo assai suggestivo.

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Thanks to Franci & Elis


[1]La parola grangia o grancia deriva da un antico termine di origine francese, granche (granaio) e indicava originariamente una struttura edilizia utilizzata per la conservazione del grano e delle sementi. Più tardi il termine fu usato per definire il complesso di edifici costituenti un’antica azienda agricola e solo in seguito assunse il valore di una vasta azienda produttiva, per lo più monastica.

LUCEDIO E LO SPARTITO DEL DIAVOLO

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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LUCEDIO (VC). Il complesso abbaziale di Lucedio si trova sul territorio comunale di Trino, in provincia di Vercelli. Perso in un’immensa distesa di risaie, e distante pochi passi dalle imponenti torri della centrale termoelettrica Galileo Ferraris (nella foto sotto, una veduta delle torri scattata dall’ingresso dell’abbazia), il complesso venne fondato nel 1123 ad opera di alcuni monaci cistercensi. Per quanto riguarda i cenni prettamente storici (e per evitare di ripetere cose scritte in migliaia di altri siti), rimandiamo all’esaustiva pagina su Lucedio presente su Wikipedia. Al giorno d’oggi, comunque, il complesso è privato ma si può visitare consultando il sito ufficiale.

Il complesso possiede due edifici sacri: l’abbazia, denominata Santa Maria di Lucedio e recentemente restaurata, e la cosiddetta “chiesa del popolo”, costruita dinnanzi all’abbazia con uno stile decisamente più sobrio. L’abbazia originale (1150-1175 circa), pericolante e malmessa, fu abbattuta per lasciare il posto alla chiesa che vediamo oggi, datata 1770. Tuttavia, alcune tracce dell’antico monastero medievale sono ancora presenti: l’aula capitolare, l’inconsueto campanile a pianta ottagonale (edificato su una base quadrata in stile gotico lombardo), il refettorio con volte a vela. La “chiesa del popolo”, costruita nel 1741 per garantire anche alle famiglie contadine di Lucedio le funzioni sacre, è attribuita a Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, ed è in stile tardo barocco.

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Leggende. Come in qualsiasi luogo sacro, per giunta isolato e con un nome tutto sommato strambo (Lucedio significa Luce di Dio, e a molti la cosa ricorda Lucifero, l’angelo di Dio più luminoso, nonché – nella mitologia romana – divinità della luce), Lucedio è stato spesso accompagnato da misteriose leggende che, ancora oggi, attirano turisti e curiosi. Nel 2008 la trasmissione televisiva americana Ghost Hunters[1] vi ha dedicato una puntata, mentre appena due anni dopo il complesso è apparso nientemeno che su Mistero, il programma sul paranormale ai tempi condotto da Marco Berry. La leggenda sostiene che Lucedio sia stato edificato sopra a un portale infernale. A sostegno (?) della tesi ci sarebbero alcuni particolari architettonici: il campanile dell’abbazia possiede una pianta ottagonale, fatto effettivamente anomalo per un edificio medievale ma non per forza riconducibile ad una presenza demoniaca; inoltre, la chiesa fu costruita a sud del complesso invece che a nord, posizione deprecabile in quanto essa non veniva in alcun modo riparata dai venti né tantomeno illuminata dal sole: tuttavia non possiamo sapere quale fosse la morfologia territoriale negli anni in cui venne edificata, ed è difficile parlare del diavolo solamente per un anomalo posizionamento.

Sempre secondo la leggenda, nella sala capitolare vi sarebbe una colonna “piangente”; molti testimoni confermano il fenomeno, molto meno inspiegabile di quanto sembrerebbe: la colonna è costruita in pietra assai porosa e, considerando la grande umidità del luogo e la conformazione del particolare architettonico (sopra di esso vi sono alcuni buchi nella pietra), non è difficile comprendere che si tratti semplicemente di infiltrazioni d’acqua dal piano superiore.

Un’altra leggenda parla di fantasmi nella nebbia (strano, la nebbia nel vercellese? Sulle risaie?), un’altra sostiene che nei sotterranei vi sia una sala segreta che contiene, ancora seduti in cerchio, i cadaveri mummificati dei monaci fondatori; c’è poi chi afferma che ogni qualvolta si parli di Lucedio qualcuno, immancabilmente, muoia (accadde ad un operaio che stava ristrutturando il complesso negli anni ’60).

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Gli unici fatti inquietanti comprovati sono due. Il primo si riferisce al ritrovamento di un cadavere murato vivo, durante alcuni lavori di restauro presso l’abbazia: gli operai sostennero che il poveretto avesse ancora i vestiti conservati, e che l’espressione sul suo volto fosse quella di qualcuno morto di stenti. Il secondo è quello del ritrovamento del cadavere carbonizzato di una giovane donna, secondo la leggenda arsa viva durante un rituale satanico. Questo fatto fu documentato da La sesia del 9 settembre 1949, ma i contorni della vicenda, pur sfortunati, non hanno nulla di demoniaco:

“In frazione Badia di Lucedio, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, per cause non ancora accertate dall’autorità competente, una grave disgrazia ha causato la morte di una giovane di 22 anni (…). La ragazza morta in seguito all’incidente, stava tornando a casa col fratello dopo aver pescato le rane, quando si incontra con un certo Renzo Greppi di anni 25 che trasportava una tanica contenente 5 litri di benzina. Quest’ultimo si sarebbe poi appartato in uno scantinato con Romilda per pulire, con la benzina, una macchia sul vestito della fanciulla. Durante il travaso sarebbe caduta della benzina sul pavimento e i giovani, per cancellare le macchie, avrebbero acceso il liquido a terra con un fiammifero, procurato da un terzo giovane di nome Enzo Sala di anni 20. Ciò avrebbe incendiato il carburante sul vestito di Romilda provocandole ustioni dall’esito purtroppo letale”.

Certo lo svolgersi dei fatti è quantomeno strano, ma il tutto fa venire in mente ad un incontro piccante finito male piuttosto che ad un sacrificio in onore di Satana.

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Lo spartito del diavolo. Questa lunga introduzione sul complesso abbaziale di Lucedio – che vi abbiamo proposto un po’ per creare l’atmosfera, un po’ per informarvi sulla natura dei luoghi che abbiamo visitato – è in realtà solamente un prologo del post vero e proprio, che ha come argomento non tanto gli edifici monastici quanto la piccola chiesa del Santissimo Nome di Maria, conosciuta ai più come Madonna delle Vigne. Il piccolo Santuario sorge a pochi passi dal complesso abbaziale, su una collinetta che separa la frazione di Montarolo dalla spianata che accoglie Lucedio. Lo si può raggiungere comodamente prendendo il sentiero alberato che parte dietro il piccolo cimitero presente sulla strada. Cinque minuti di cammino nei boschi e ci si ritrova davanti alla chiesa: costruita nel XVII secolo dai monaci di Lucedio, a pianta ottagonale e alta circa 25 metri, è abbandonata e sconsacrata da una quindicina di anni.

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Il motivo del suo abbandono, al di là della posizione isolata, si può collegare alla leggenda dello “spartito del diavolo”, probabilmente la più caratteristica (e paurosa) che si possa sentire su Lucedio.

La leggenda narra che nel 1684, nel vicino cimitero, alcune streghe evocarono il demonio. Quando fu il momento di imprigionarlo nuovamente nell’Ade, qualcosa andò storto, e il diavolo si impossessò degli abati di Lucedio che, da quel momento, iniziarono una scorribanda di soprusi, stupri, omicidi, orrori di ogni tipo, perpetrati abusando del proprio potere religioso. La leggenda vuole che nel 1784, esattamente cento anni dopo l’evocazione, da Roma giunse a Lucedio un esorcista che, con grande sforzo, riuscì a rispedire il demonio all’inferno e a liberare gli abati. Come suggello all’incarcerazione del demone, venne composta una musica magica avente il potere di trattenere il diavolo qualora si fosse nuovamente manifestato. Tuttavia – e qui viene il bello – suonando il brano al contrario (da destra sinistra e dal basso verso l’alto) si otterrebbe l’effetto opposto, ovvero quello di evocare nuovamente il diavolo nel nostro mondo.

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La leggenda rimase nell’aria per parecchi anni, fino a quando, una quindicina di anni fa, l’archeologo Luigi Bavagnoli, fondatore del gruppo Teses, fece una sensazionale scoperta:

“Nel 1999 vagavo in zona scattando fotografie per documentare i monumenti di interesse artistico e culturale che, a mio avviso, erano a rischio, per sensibilizzarne il recupero e la valorizzazione. Fu così che mi ritrovai all’interno del vicino Santuario di Madonna delle Vigne, all’epoca abbandonato a se stesso, avvolto da rampicati e soggetto a poco salubri infiltrazioni di acqua piovana. Notai, sopra il portone di accesso, un affresco, che, tra le altre cose, rappresentava un organo a canne ed uno spartito. All’epoca non ero ancora a conoscenza della leggenda dello “Spartito del Diavolo”, fotografai il tutto e me ne dimenticai. Solo dopo aver raccolto diverse testimonianze in merito a questa leggenda mi posi il quesito. Che lo spartito che tanti curiosi, ricercatori e storici avevano cercato in forma cartacea, non fosse invece quello affrescato nel vicino santuario? Contattai quindi la dott.ssa Paola Briccarello, studiosa di musica antica e liturgica. Le affidai il compito di capire se quelle note potevano avere qualche legame con la leggenda. Dopo poco tempo mi fece sapere che quel pentagramma conteneva delle stranezze. Riporto alcuni concetti, rimandando i dettagli al suo studio. Tramite un sistema di sostituzione di note con le lettere, simile ad una cifratura, comparivano chiaramente tre parole: DIO, FEDE, ABBAZIA. Singolare e, oserei dire, non casuale. Inoltre mi spiegò che i tre accordi iniziali erano tipicamente accordi di chiusura, ovvero adoperati al termine, e non all’inizio, di un brano. Un po’ come se fosse stato dipinto al contrario.[2]

Al giorno d’oggi la Madonna delle vigne non versa in condizioni molto diverse rispetto a quando Bavagnoli la visitò nel 1999. Il sagrato come l’interno della chiesa sono cosparsi di macerie staccatesi dalle pareti, il che va presupporre che i crolli siano piuttosto frequenti. Le statue che un tempo ornavano la chiesa (nelle foto potete vedere le nicchie rimaste vuote) sono state trafugate da tempo, ma il resto rimane esattamente com’era: il piccolo altare con alle spalle un piccolo capitolo (dal soffitto assai suggestivo), la maestosa cupola ottagonale, un tempo affrescata, i capitelli e gli splendidi particolari architettonici (le arcate, le finestre, i lucernari), il “mitico” affresco sopra l’ingresso, rappresentante un organo a canne e “lo spartito del diavolo”. Sicuramente, come spesso tristemente accade in questi casi, la chiesa è stata colpita da numerosi atti vandalici, sottolineati dalle scritte sui muri (“Satan”) ma anche da un bizzaro ex voto visibile nei pressi dell’ingresso, che recita “per la chiesa delle vigne, perché torni a splendere”. Per ora, in realtà, nessuno pare intenzionato a far si che la Madonna delle vigne risplenda come un tempo. Il suo aspetto rimane assai lugubre e pauroso e, merito anche delle leggende che la accompagnano, resta una meta affascinante in grado di turbare anche i più coraggiosi. Suggestione? Sicuramente, ma Lucedio è uno dei pochi luoghi delle nostre terre in cui si può respirare davvero un’atmosfera misteriosa. E che, non fatichiamo a immaginarlo, di notte può facilmente tramutarsi in terrore.

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Thanks to Franci & Elis

FONTI:

http://www.principatodilucedio.it/index.html

http://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_Santa_Maria_di_Lucedio

http://www.welovemercuri.com/files/IL_PRINCIPATO_DI_LUCEDIO-1.pdf

http://www.teses.net/news/lucedio-e-lo-spartito-del-diavolo/

http://blog.libero.it/n3raforma/3862433.html


[1] Si tratta di una serie americana uscita anche in Italia in cui un gruppo di investigatori del paranormale indaga di notte nei luoghi apparentemente infestati da fantasmi.

[2] Il testo riportato è tratto da un articolo di Luigi Bavagnoli, creatore del gruppo Teses, apparso sul sito dell’associazione al seguente indirizzo http://www.teses.net/news/lucedio-e-lo-spartito-del-diavolo/

I FANTASMI DI SALETTA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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SALETTA (VC). La piccola frazione di Saletta fa parte del comune di Costanzana, in provincia di Vercelli. Più che di una frazione vera e propria, si tratta di un piccolissimo assembramento di costruzioni che giace, isolato, in mezzo alla distesa di risaie che separa Vercelli da Trino. Con lo spopolamento della frazione, dettato probabilmente dalla posizione estremamente isolata, sono fiorite le leggende che accompagnano qualsiasi paese fantasma che si rispetti. Al giorno d’oggi Saletta è una frazione totalmente disabitata, utilizzata soltanto da chi lavora nei campi circostanti per parcheggiare mezzi agricoli e balle di fieno. Il complesso è formato da un vecchio castello, alcune cascine sorte a ridosso di esso, una chiesa con piccolo cimitero e un tempietto dalla pianta circolare. La frazione ha origini molto antiche: il suo nome compare in un atto datato 1148 e in un diploma di Federico Barbarossa del 1152[1]. Per quanto riguarda i cenni prettamente storici, vi rimandiamo ad alcuni siti che troverete elencati nelle fonti, in fondo al post.

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3La chiesa. La chiesa di Saletta, dedicata a San Bartolomeo, viene menzionata per la prima volta in una carta del 1280. Imponente nell’aspetto e assai interessante nell’architettura (suggestivo il colonnato d’ingresso), la chiesa possiede un bizzarro frontone che non ha fatto che accentuare le dicerie inerenti a Saletta: per tutte la sua lunghezza, infatti, appaiono scolpiti i teschi rabbiosi di alcuni bovini. Per impedire ulteriori atti vandalici, l’ingresso della chiesa è stato recentemente murato, rendendo impossibile una visita all’interno. Sulla destra dell’edifico, ormai sconsacrato, vi è un piccolo cimitero che ospita ancora parecchie tombe di abitanti del luogo. Anche il cimitero, un tempo visitabile, è stato chiuso con una pesante catena per evitare ulteriori profanazioni.

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5Il tempietto. La costruzione conosciuta come tempietto è in realtà un tabernacolo, dedicato a San Sebastiano. Rispetto al resto della frazione, il tempietto appare inspiegabilmente decentrato (si trova circa 450 metri a est della chiesa), ed è l’unica costruzione di Saletta difficilmente visitabile durante il periodo estivo. Esso si trova infatti in un fitto boschetto, percorribile soltanto quando le piante perdono il “verde” durante i mesi freddi[2]. A pianta circolare, il tempietto era magistralmente decorato in tutta la sua circonferenza.

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Dicerie (?). Avrete notato, leggendo questo blog, che non siamo disposti a credere alle dicerie che spesso accompagnano i luoghi abbandonati (sembra quasi che l’aggettivo “abbandonato” sia sinonimo di “infestato”), e sicuramente non inizieremo a crederci dopo aver visitato Saletta, ma le leggende che accompagnano questo luogo sono talmente tante che forse vale la pena citarne qualcuna. Pur togliendo le palesi castronerie (i motorini si spengono nei pressi della chiesa, i cellulari non prendono – sic, come in qualsiasi posto isolato, aggiungiamo noi!), i si dice riferiti a Saletta sono parecchi, anche se quasi nessuno documentato.

Luoghi del diavolo. Informandoci per il nostro post su Oropa Bagni, altro luogo che la credenza popolare attribuisce ormai esclusivamente ai culti diabolici (che in effetti avvennero, ma poche volte e negli anni ’80), siamo venuti a sapere che spesso i luoghi abbandonati – specie se nei pressi di chiese e santuari – attirano folli ed esaltati convinti di evocare Belzebù accendendo un fuoco e scuoiando qualche povero scoiattolino di bosco. Saletta, che di luoghi sacri ne possiede ben tre (chiesa, cimitero e tempietto), non è probabilmente sfuggita a questo triste destino. In un articolo apparso l’8 dicembre 1991 su La stampa, alcuni ragazzi riferirono di aver visto, durante una gita notturna a Saletta, una forte luce in chiesa e alcune scritte inneggianti al demonio. L’attendibilità di queste testimonianze non è mai stata tuttavia provata.

8Fantasmi. Parecchi i fantasmi che, secondo le credenze popolari, investono il loro (eterno) buon tempo nei pressi di saletta. Ci sarebbe il fantasma di una giovane innamorata morta suicida, nipote del Marchese Pallavicini Mossi (coluì che eredito il feudo nel 1625, secondo i documenti): la leggenda narra che il suicidio avvenne nei boschi dietro la chiesa, e che Mossi avrebbe fatto erigere il tempietto proprio nel luogo del fattaccio. Vero o meno, la storia del suicidio potrebbe spiegare il mistero sulla strana posizione del tempietto, molto “isolato” rispetto agli edifici della frazione. Si parla poi del fantasma di un bambino trovato impalato nei pressi del cimitero, quello di una bambina che si ammalò e morì dopo aver visitato la frazione, addirittura si parla di un Poltergeist che infestò la casa di alcuni contadini della zona.

9Non è finita. Si sente raccontare dai contadini che abitano nei paesi limitrofi a Saletta che d’inverno (raramente in estate), nei campi a ridosso del tempietto, si vede comparire la figura nebulosa ed indefinita, avvolta in una luce bianca, di una donna che cammina pochi centimetri dal suolo per poi, improvvisamente, scomparire.

Ossa di giganti. Una delle poche leggende su Saletta che appare, se non provata, quantomeno citata in documenti ufficiali, è quella del ritrovamento di alcune ossa appartenute a esseri giganti. Lo storico vercellese Giovan Battista Modena, canonico vissuto tra il XVI e il XVII secolo, si convinse dell’esistenza di giganti prediluviani nel territorio piemontese. Nel 1622 egli scrisse: (a Saletta) si è ritrovato un corpo di gigante di altezza e grossezza indicibile che io stesso ho veduto, misurato….”. Il documento citato esiste, ma ovviamente non vi sono prove del ritrovamento.

Chilometri di sotterranei. Una delle leggende più famose su Saletta è quella dei cunicoli sotterranei che collegherebbero la frazione a Costanzana (circa 2 km). La partenza dei cunicoli si troverebbe nella stanzetta presente sotto il tempietto, ma visitandola nessuno ha mai trovato tracce di un qualche passaggio. Altre leggende parlano invece di un cunicolo che collegherebbe Saletta alla vicina frazione di Torrione. Ovviamente non vi sono prove in merito, ma va detto che in altri luoghi – nemmeno troppo lontani, ad esempio sotto il Monastero di Castelletto Cervo (BI) – la presenza di questi cunicoli è assolutamente documentata.10

L’unica cosa davvero certa è che, creduloni o meno, Saletta resta un luogo assai suggestivo e misterioso, in grado di inquietare anche chi, come noi, ha smesso di credere ai fantasmi. Tutti i luoghi abbandonati emozionano e turbano, talvolta mediamente, talvolta parecchio. La piccola frazione di Saletta, complici anche le tante leggende che la accompagnano, emoziona e turba sopra la media. Non sappiamo se davvero i suoi abitanti sono “scappati” terrorizzati (come affermava qualche giornale locale negli anni ’80). Le sue storie sono tutte tramandate oralmente, dai ragazzini in cerca di ardite prove di coraggio come dai vecchietti  al bar che le raccontano ridacchiando e senza mai crederci davvero (o forse, sotto sotto ci credono pure loro), e forse è proprio questo il suo punto di forza: soltanto l’impossibilità di provare una leggenda la mantiene tale. Ed è quest’impossibilità ad emozionarci e ad affascinarci, nonostante tutto.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci & Elis

FONTI:

http://www.piemondo.it/storia-mistero-archeologia/222-i-misteri-di-saletta.html

http://www.welovemercuri.com/files/SALETTA_DI_COSTANZANA.pdf

http://www.teses.net/


[1] Tutte le informazioni su Saletta che trovate in questo post sono state “catturate”  dal gruppo Teses www.teses.net

[2] L’unica foto di questo post che non abbiamo scattato noi è proprio quella della veduta frontale del tempietto. Come noterete dalla fauna, è stata scattata d’inverno.

L’ISOLA #1 – GEOMETRIE

Testi e foto di Riccardo Poma

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Questo edificio, che sorge tra Santhià e Formigliana (insomma tra Biella e Vercelli) in mezzo ad una grande distesa di risaie, mi ha sempre affascinato per almeno due ragioni. In primis, per la sua collocazione: non ci sono strade per raggiungerlo, si trova esattamente in mezzo ad una risaia. Una posizione che gli dona l’aspetto di un’isola anomala che, invece di giacere in mezzo al mare, si trova tra i campi di riso. Quando le risaie sono piene d’acqua, diventa un’isola a tutti gli effetti.

2

Ovviamente questa stramba collocazione è presto spiegata: sicuramente prima c’era una strada che portava ad esso, ma con la costruzione di nuovi campi e l’abbandono dell’edificio è probabilmente scomparsa. All’interno vi sono tracce di alcune mangiatoie, dunque doveva trattarsi di una stalla.

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L’altro aspetto di questo edificio che mi ha sempre colpito è il colpo d’occhio che offre quando si giunge nei suoi pressi: si tratta infatti di una costruzione molto “geometrica”, armoniosa nel suo “trionfo di righe” verticali e orizzontali. Sono poche le vecchie costruzione ad essere così squadrate: certo, molte non lo sono più a causa dell’abbandono, ma non è difficile accorgersi che questo piccolo edificio si presenta in maniera ben diversa rispetto alle molte cascine abbandonate presenti in queste zone; oltre che l’aspetto squadrato, infatti, è decisamente particolare il tetto, che nel lato sud presenta uno spiovente assai pronunciato, probabilmente pensato per riparare il bestiame dal sole cocente.

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Le linee della costruzione si sposano alla perfezione con quella, verticale, della stradina che gli passa accanto (senza toccarla, sennò non sarebbe un’isola), e con quella dell’orizzonte. Ma ci sono anche le linee delle “spalle” delle risaie, dei pali della luce, dei fossi. Le uniche linee asimmetriche e irregolari sono quelle delle montagne e degli alberi sullo sfondo, come a rimarcare ancora una volta quel suggestivo contrasto – visivo e “poetico” – tra le opere dell’uomo e la natura.

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Le fotografie sono state scattate al tramonto per accentuare i contrasti cromatici e, di conseguenza, le geometrie da essi provocate. Gli scatti sono avvenuti in quei pochi minuti estivi in cui il sole compie un ultimo saluto per poi riposarsi dietro le montagne, quel breve lasso temporale che separa la luce dall’ombra: lo si nota ad esempio nell’ultima fotografia, scattata circa cinque minuti dopo la prima eppure già molto più scura.

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Un’isola tra le risaie, un riflesso geometrico che unisce il cielo alla terra, la mano dell’uomo al piede ieratico e coinvolgente della natura.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

UN BUNKER TRA LE RISAIE

Reportage realizzato da Riccardo e Francesco Poma, testi e fotografie di Riccardo Poma

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Leggende. Quando ero più piccolo – dovevo avere sei o sette anni – ricordo che qualcuno mi raccontò che, in un boschetto poco lontano da casa mia, meta sicura dei cosiddetti “fungiàt”, c’era un “bunker” della seconda Guerra Mondiale. Qualche tempo fa, più o meno nel periodo in cui ci venne l’idea di creare questo blog, mi ritrovo a chiedere a mio padre – Fungiàt DOC – se sa indicarmi qualche vecchio luogo abbandonato dalle nostre parti. “C’è un bunker nella Baraggia”, mi dice, “ma non mi ricordo dov’è”. Il paese è piccolo, e basta lasciarsi scappare una parola di troppo al bar che tutto diventa di dominio pubblico. Non solo: il piacere della scoperta alberga in ben più anime di quante si creda. E così via, per più di un mese l’argomento più gettonato al bar è proprio il famigerato bunker.

“Devi addentrarti tra i campi di grano”, dice qualcuno. “Ma no”, ribatte un altro, “è in mezzo alle risaie!”. “Figurarsi”, aggiunge il terzo, “non ci sono funghi nelle risaie e nei campi di grano: è in mezzo a un boschetto!”

Parte allora la nostra indagine. Identifichiamo la porzione di territorio in cui “deve” trovarsi la costruzione – l’unico elemento su cui tutti i clienti del bar, agricoltori, girovaghi e cantastorie, si trovano d’accordo – e, attraverso Google Earth, iniziamo a cercare “dall’alto” qualche segno di costruzione. Detto così sembra facile, ma le nostre zone di campagna non possono certo contare su immagini ad alta definizione (se si guarda il Central Park di New York, si riesce a stabilire addirittura di che razza sono i cani a passeggio), e la modalità Street View è soltanto una chimera (del resto, chi ha bisogno di osservare territori in cui nessuno va mai?). Vedo un luogo che potrebbe rispecchiare le caratteristiche di un bunker, almeno per come me lo immagino io: vicino a delle piante, lungo e stretto. Il fatto che a fianco abbia delle risaie non deve ingannare: i campi non c’erano negli anni ’40, era tutta baraggia. Posto ideale per nascondere qualcosa (anche perchè Google Earth non c’era). Stampo la mappa, carico macchina fotografica e cavalletto e partiamo. Giunti sul posto, sui nostri volti appare la prima delusione delle tante che incontreremo durante la nostra ricerca: il luogo visto dal satellite non è altro che un piccolo box di mattoni in cui qualche agricoltore del luogo parcheggia trattori a attrezzi agricoli. Nulla da fare, si torna a  casa.

2

Confrontando questa foto con la prima in alto si può notare quanto l’ambiente cambi a seconda della stagione.

Ripartiamo qualche giorno dopo, percorrendo una strada alternativa. Arriviamo vicino ad un altro boschetto, ma ad un certo punto la strada ci è interrotta da un fiumiciattolo. Non ci fidiamo ad attraversare, anche perché non disponiamo di Jeep ma di una normalissima utilitaria. Facciamo qualche passo a piedi, ma nel bosco non riusciamo a scorgere nulla. Seconda delusione, anche se questa volta la sensazione è diversa: ho sentito, per la prima volta, di essere sulla buona strada. Non credo a questo tipo di cose, non ci ho mai creduto. Ma quel bosco mi ha colpito, ho sentito che se c’èra, il bunker doveva essere da quelle parti.

Torniamo a casa, di nuovo davanti al PC. Utilizzando l’applicazione che consente di vedere le foto aeree più vecchie, il boschetto ci appare come era nel 2001. Non una grande differenza, per carità, ma in almeno tre punti scorgiamo qualcosa che ci potrebbe interessare, e ormai ci interessa davvero ogni dettaglio. In un punto si vede, tra il verde degli alberi, una macchia regolare più chiara, che sembra riflettere la luce del sole. In altri due punti, anche se meno chiaramente, notiamo la stessa cosa.

“E’ qui”, penso, “ non può essere che qui”.

Giornata piovosa. Circa una settimana dopo, decidiamo di ripartire. La giornata è piovosa, ma verso le due del pomeriggio le nuvole, pur restando in zona, concedono un po’ di tregua. Da un lato cantiamo vittoria, in quanto la calura di Agosto ci lascia un po’ di tregua (non è molto bello camminare tra le risaie con 35 gradi), dall’altro sappiamo che la nostra ricerca diventa più difficile, in quanto il grigio del cielo rende tutto più sbiadito: ciò che ci interessa si trova probabilmente nella fitta boscaglia, e senza il sole come complice diventa difficile vederlo, anche se si è molto vicini. Si parte.. Prendiamo la nuova mappa – in cui abbiamo evidenziato le tre possibilità – e ci addentriamo nuovamente nella baraggia. Parcheggiamo la macchina nel punto in cui le stradine sterrate portano il più vicino possibile al boschetto – che in realtà è lungo circa un chilometro e, in alcuni punti, spesso 300 metri – e, a piedi, ci addentriamo tra le piante. Dopo circa dieci minuti di cammino, scartiamo la prima ipotesi: secondo la mappa, la prima delle tre zone più chiare dovrebbe trovarsi vicino al sentiero che stiamo percorrendo, ma nonostante un controllo preciso non riusciamo a vedere nulla. Secondo tentativo: ci spostiamo in direzione della macchia più chiara, quella che più di tutte mi sembrava papabile per il bunker. Di nuovo in cammino, ma questa volta non su un sentiero, bensì sulla spalla di una risaia. La prima parte è facilmente praticabile, la seconda diventa un po’ più complicata perché la terra è sovrastata da grossi arbusti (e qui mi vengono in mente tutte quelle persone che mi dicevano “vi conviene andare d’inverno”…). Arriviamo al confine tra il bosco e la risaia.3

Mi addentro sulla linea che separa il verde (delle piante) dal giallo (del riso), e inizio a camminare guardandomi continuamente intorno. Nel bosco si vedono betulle e pioppi, l’erba è alta e tra le file di alberi ci sono spazi pianeggianti: luogo ideale per i funghi, penso, e mi convinco che siamo sulla buona strada. Mi sembra di vedere qualcosa, ma tra il concatenarsi degli arbusti e la vastità del bosco, non riesco a distinguere nulla. Decido di entrare. L’erba mi arriva al petto (io sono alto circa un metro e novanta) e ad ogni passo sento i piedi affondare nella melma. I rovi mi sbattono contro i pantaloni, aggrappandovisi e lacerando alcune parti di tessuto (e, di conseguenza, la pelle delle mie gambe). Non vedo nulla, solo alberi, finché mi imbatto in una distesa più chiara, sabbiosa. La voglia di imprecare – vista anche la mia posizione affatto confortevole – è più forte che mai. Quella macchia più chiara, vista dal satellite, non è altro che una piccola distesa regolare di sabbia. La delusione si fa grande.

Torno indietro, dove mi attende mio fratello.

“Niente?” “Niente”. Ci incamminiamo nuovamente sulla spalla della risaia, convinti che nemmeno questa volta troveremo qualcosa. Il bunker. Un traccia. Qualunque cosa. Niente.

Decidiamo di lasciar perdere la terza macchia, troppo simile alle altre due per essere qualcosa di diverso. Torniamo indietro, in auto, e decidiamo, pur non coltivando più alcuna speranza, di tornare vicino a quel fiumiciattolo che tempo prima non avevamo guadato. Questa volta abbiamo un’auto più alta, e decidiamo di attraversare il rigagnolo. Giunti sull’altra sponda, ci troviamo su una stradina che costeggia il bosco. La percorriamo a passo d’uomo, osservando accuratamente, scendendo quando ci sembra di aver visto qualcosa, ma in breve tempo siamo di nuovo al guado.

“Niente”, dico, “è andata male. Probabilmente non c’è più… Magari l’hanno spianato per fare una risaia, o forse la vegetazione è riuscita a distruggere anche il cemento armato”.

Attraversiamo il fiumiciattolo, e costeggiamo l’ultimo pezzetto di bosco prima di tornare sulla stradina che ci ha portato lì.

“Vai piano”, dice mio fratello. “Tanto non c’è nulla”, rispondo io, sconsolato.

Ma abbiamo fatto trenta, facciamo trent’uno. Lo accontento, più che altro per fargli capire che apprezzo il suo tentativo di risollevarmi dalla delusione. Guardo il boschetto, in cerca di un’ultima traccia che non mi spinga ad abbandonare per sempre questa ricerca.

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Particolare dell’entrata.  I tondini di ferro del cemento armato si confondono con i rami degli alberi.

“Ferma!”, mi dice. Mi volto nella direzione che mi viene indicata col dito. “Lì”, dice, “il rigagnolo fa un giro strano, sembra convogliato dall’uomo”. “Ovvio”, dico io, “in terra di risaie non c’è nulla che non sia convogliato dall’uomo. Ogni corso d’acqua viene deviato per passare vicino alla risaie, che notoriamente non possono vivere senz’acqua”.

“Può darsi”, risponde lui, con gli occhi luccicanti, “ma per me siamo vicini”.

Impossibile, penso. Qui il boschetto sarà largo si e no venti metri, come si può costruire un bunker in una zona così piccola.

Torno a guardare la strada, iniziando ad accelerare per tornare verso casa. Poi, d’un tratto, do un’ultima occhiata verso quell’intricato, infernale boschetto. E finalmente, dopo quasi un mese di ricerche, lo vedo.5

Eccolo. Dando quell’ultima, fulminea occhiata, ho scorto qualcosa che, nei meandri del mio cervello, ha fatto partire un’equazione che si potrebbe riassumere in questo modo: natura = linee irregolari; costruzioni umane = linee regolari; cosa ci fa una linea regolare in mezzo ad un boschetto in cui dovrebbe esserci soltanto natura? Scendo dalla macchina sbraitando come un ossesso.

“Eccolo!”, urlo, “eccolo, eccolo, eccolo!”

“Ma dove?”, urla mio fratello.

“E’ regolare”, dico, “è regolare! Non può essere un albero, non può!”

Mi inchino per avere una buona visuale tra gli arbusti, e mio fratello si avvicina.

E lui è lì.

Abbiamo fatto molte ipotesi, da quando l’abbiamo trovato. Non abbiamo detto a nessuno dove si trova, perché non vogliamo che tutti quelli che ne conoscono l’esistenza (ma che se ne erano dimenticati da anni e non ricordano dove si trovi) lo facciano diventare meta turistica per ragazzini in cerca di avventura o giaciglio misterioso per innamorati in cerca di camporelle selvagge. O forse non l’abbiamo detto a nessuno perché, con un po’ di egoismo, ci sembra ingiusto che qualcuno lo trovi facilmente mentre noi lo abbiamo cercato per più di un mese. Sappiamo certo che non si tratta di una scoperta sensazionale, ma nel nostro piccolo è stato come scoprire un nuovo pianeta, ci siamo sentiti Armstrong e Collins che mettevano piede sulla Luna per la prima volta. Abbiamo fatto ricerche accurate, ma non siamo riusciti a trovare notizie sulla costruzione di quel deposito. Già, deposito, perché quella costruzione non è certo un bunker nel vero senso della parola: non ha feritoie per sparare, e l’entrata – la “botola” – d’ingresso è lunga due metri e larga uno, cosa che ci fa escludere che dentro vi si potessero introdurre armi pesanti. Solo armi di piccolo calibro (pistole e fucili) e persone potevamo avervi libero accesso. La sua posizione e il fatto che sia costruito in cemento armato, comunque, fa escludere che si tratti di una costruzione civile. Fu edificato in quel punto e con quei materiali per almeno due ovvie ragioni: tenerlo nascosto a chiunque non ne conosceva la presenza; ospitare al suo interno materiali – o persone – per proteggerli dagli eventi esterni (bombe, intemperie, ecc). L’ingresso, oggi, è chiuso da un’enorme quantità di terra, probabilmente riversatasi all’interno in quasi settant’anni di assenza umana. Scoprire come fosse all’interno o recuperare vecchi reperti che sicuramente ne svelerebbero l’identità appare oggi, se non impossibile, altamente improbabile: bisognerebbe estrarre centinaia di tonnellate di terra da una botola 2X1, e il comune di Masserano, cui appartiene il boschetto, non ha alcuni interesse in questo momento a spendere soldi in un’opera così monumentale.6

Ipotesi:

È un deposito di armi della Prima Guerra Mondiale. Questa prima ipotesi ci è stata suggerita da alcuni studiosi del luogo, che hanno scoperto attraverso alcune ricerche che nella baraggia, prima del conflitto mondiale, venivano fatte delle manovre militari con lo scopo di “addestrare” i soldati che dovevano partire per il fronte. Di conseguenza, i comandi avrebbero avuto bisogno di depositi ben nascosti per lasciare le armi nei momenti di inattività. Due gli elementi che spingono però a scartare la teoria: innanzitutto, nel 1914 il cemento armato si usava più che altro per costruire lapidi e tubature, e non era ancora impiegato per costruire edifici; altresì, sul soffitto dell’entrata del deposito non si trovano mattoni pieni, bensì tavelle (mattoni forati), introdotte nell’edilizia soltanto in periodi successivi.

È un deposito delle Ferrovie. La vicinanza – relativa – dell’edificio rispetto all’ex Stazione di Masserano ha portato alcuni studiosi a pensare che si tratti di un deposito delle ferrovie statali. In realtà la stazione, costruita da privati negli anni trenta, divenne statale soltanto negli anni ’60, e di conseguenza lo stato, durante la guerra, non avrebbe avuto interesse a preoccuparsi delle sue condizioni. E poi deposito per cosa? Macchinari? La porzione di terreno tra stazione e Bunker, un tempo, era tutta boschiva: come si sarebbero potuti spostare i suddetti macchinari (per la manutenzione, ad esempio) attraverso quel percorso? E, soprattutto, come li avrebbero fatti entrare nel bunker, considerando che la botola d’accesso occupava circa due metri quadrati? Le domande non sono finite:  perché interrare un deposito di attrezzi? Non lo si poteva fare alla luce del sole?

È un bunker della seconda guerra mondiale, costruito dall’esercito italiano. Questa ci sembrava l’ipotesi più realistica, almeno considerando la posizione nascosta dell’edificio, l’impiego del cemento armato e l’esistenza – evidente, considerando che all’interno c’è una botola – di un vano interrato. La mancanza di feritoie per l’artiglieria svela che certamente non fu costruito per azioni di guerra: piuttosto, è probabile che fosse un deposito segreto di armi. Costruito prima della Guerra, non venne poi utilizzato perché la zona baraggiva in cui si trovava era frequentemente occupata dai partigiani, che dominavano il territorio protetti dalle fitte boscaglie. I partigiani, a loro volta, non lo utilizzavano perché l’esercito ne conosceva la collocazione.7

È un deposito della Fornace. Non troppo lontano dal luogo in cui si trova il bunker sorge, ormai abbandonata da anni, l’ex fornace di Masserano. Si dice che durante la Guerra i proprietari della fornace avesse preso accordi con l’esercito per ospitare un piccolo reparto in cui produrre armi di piccolo calibro (pistole e fucili). Se la fornace fosse stata bombardata, qualcuno poteva avere l’ordine di portare più armi possibili all’interno della struttura, situata a circa un chilometro e mezzo di distanza e facilmente raggiungibile attraverso le strade sterrate che, in quei tempi, venivano costruite dai possidenti per raggiungere i propri terreni. Un’altra ipotesi che non potevamo scartare: il fatto che a costruire l’edificio possano essere stati “esperti di edilizia”, svelerebbe il perché delle tavelle, mattoni ancora scarsamente utilizzati dalla maggioranza ma già presenti in qualunque fornace.

È un deposito successivo alle due guerre. Gli abitanti di Castelletto Cervo e Masserano ci raccontano che, negli anni ’60, l’esercito raggiungeva spesso le zone baraggive per svolgere delle esercitazioni con tanto di carri armati e artiglieria pesante. Dunque, l’edificio potrebbe non essere nient’altro che un piccolo deposito che i soldati utilizzavano durante queste manovre. Questa ipotesi, forse la meno poetica, non è comunque da scartare.

Molte ipotesi e idee abbiamo raccolto durante le nostre ricerche – addirittura, qualcuno ci ha detto che potevano essere “chiuse” (anche se il “fiume” che passa vicino alla costruzione è largo un metro e profondo dieci centimetri) o una struttura privata (!) – e, sinceramente, non siamo riusciti a venire a capo di niente.

Fino ad oggi.8

Particolare dell’ingresso sotterraneo. L’alberello cresciuto all’interno fa presupporre che l’intero edificio sia stato riempito di sabbia e terriccio, probabilmente nel periodo in cui la Baraggia fu bonificata per fare spazio alle risaie. 

Il partigiano Dante. Durante il secondo conflitto mondiale, la baraggia fu sicuro nascondiglio di molti plotoni partigiani. La fitta, intricata boscaglia ospitò centinaia di ribelli che, grazie anche al sostegno delle popolazioni limitrofe, potevano sfuggire ai tedeschi e allo stesso tempo controllarne gli spostamenti: la zona baraggiva arrivava fino alla strada – ancora percorribile – che portava da Biella a Vercelli e viceversa, una tratta privilegiata dai nazifascisti che spostavano armi e prigionieri da una “grande città” all’altra. Proprio parlando con uno di questi partigiani, Dante Aglietti, abbiamo scoperto che il bunker si trovava già in quei boschi durante la guerra e che, addirittura, ve ne erano altri cinque, a formare una sorta di “esagono” in mezzo ai boschi che circondava idealmente le Quattro Madame. La testimonianza del partigiano Dante, unita ad alcune ricerche effettuate dal vicesindaco di Castelletto Cervo, ci ha svelato molti misteri riguardanti il bunker. Si tratta di una struttura militare costruita a cavallo delle due guerre, probabilmente intorno al 1935. Il suo scopo era quello di addestrare i giovani militari ad alcune gravi situazioni belliche, come ad esempio il bombardamento aereo. Non a caso a poche centinaia di metri dal bunker sorge la cascina delle Quattro Madame, edificio abbandonato negli anni venti del ‘900 che venne utilizzato come bersaglio – mai colpito (!) – per le manovre dell’aeronautica. I sei bunker dovevano quindi servire per stipare materiale bellico e per ospitare i militari durante le prove di bombardamento. Anche questa teoria non possiede fonti documentate, ma ascoltando diverse testimonianze ci è sembrata la più veritiera.

Noi un bunker l’abbiamo trovato, ora non resta che trovare gli altri cinque.

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STAZIONI FANTASMA

Testi di Riccardo Poma, fotografie di Andrea Altellini e Riccardo Poma

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MASSERANO (BI). Su La stampa sera del 7 luglio 1983 c’è un articolo dal titolo “L’incredibile stazione fantasma, dove non parte e non arriva nessuno”. La stazione in questione è quella di Masserano, abbandonata a se stessa e cancellata dalle tratte ferroviarie (era sulla Biella– Novara) da almeno 15 anni. Al di là del tono ridanciano e insolente dell’articolo – che sostiene che la stazione si trovi nella “steppa”, che sia circondata da bisce e giganteschi ratti di fogna e che a Masserano si fanno le cose “alla carlona” – la posizione di questa stazione, prima privata e poi nazionale (dal 1960), è quantomeno surreale: l’edificio si trova infatti a ben 10 km dal centro abitato di Masserano, è costruita sul suolo di un altro comune (Castelletto Cervo) e, per giunta, in mezzo alle risaie. L’abitazione più vicina è a circa 3 km, e l’unico modo per arrivarvi è farsi a piedi la strada provinciale. Oppure passare dalla baraggia, come ci hanno raccontato i castellettesi più anziani, che sfruttavano la piccola stazione per dirigersi a scuola a Biella (si parla degli anni ’40). Alla luce di questo strambo posizionamento, non è difficile domandarsi come sia possibile che la stazione sia stata ben presto abbandonata: è troppo lontana dai centri abitati e, di conseguenza, i pendolari preferiscono dirigersi alla stazione di Cossato, che, paradossalmente, è più vicina al centro abitato di Masserano rispetto a quella di Masserano. La usavano i castellettesi, certo, ma il fatto che per raggiungerla si dovessero fare tutti quei km presto stancò anche loro. Oggi l’edificio è quasi totalmente divorato dalla fauna, invisibile dalla provinciale e distinguibile velocemente (ma si deve prestare molta attenzione) se si è seduti sul treno.

A causa del ritrovamento di alcuni murales e di parecchie siringhe, all’inizio degli anni ’90 gli ingressi della stazione furono letteralmente murati. La cosa incredibile, surreale, è che nessuno portò fuori il materiale ancora presente dentro la stazione, e così non fu raro, negli anni successivi alla muratura, che passando davanti alla stazione si vedessero documenti cartacei volare fuori dalle finestre, trasportati dal vento. Nel 2007 gli amministratori locali, stanchi dei continui incendi dolosi di rifiuti nei pressi della stazione (e, forse, anche del fatto che il luogo stesse diventando un luogo d’appuntamenti hard) hanno chiuso il viale alberato che portava all’edificio con dei blocchi di cemento armato. L’unico modo per raggiungere la stazione rimane la Baraggia, ma non è facile trovare la strada giusta.

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BURONZO e CARISIO (VC). Quella di Masserano non è l’unica stazione abbandonata della zona. Nei piccoli centri biellesi e vercellesi se ne trovano molte; abbandoni non tanto dettati dall’improponibile posizione, come accadeva con la stazione di Masserano, quanto per lo sviluppo esponenziale del trasporto privato su gomma e per la soppressione delle linee di interesse. Recentemente, non senza legittime polemiche, è stata chiusa la linea  Santhià – Arona. Molte stazioni della tratta sono state dunque abbandonate a se stesse, altre erano in disuso da parecchio tempo.3

Come quelle di Buronzo e Carisio, entrambe sulla tratta soppressa, entrambe abbandonate da una quindicina di anni. Quella di Buronzo porta con se uno strambo paradosso: nel 2012, nonostante l’abbandono, è stata ritinteggiata e messa a nuovo (anche se gli ingressi restano murati). L’unico motivo plausibile è che, considerata la sua posizione (svetta a sinistra, su una collinetta, arrivando da Vercelli), essa sia stata sistemata per evitare che i viaggiatori ricevessero, come benvenuto dal comune di Buronzo, un casolare sfatto e cadente.4

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

LO SCHELETRO CHE GUARDA LA VALLE

Testi di Riccardo Poma, fotografie di Marco Pignolo e Riccardo Poma1

BIELLA. La conca della valle di Oropa (Biella) ospita uno dei santuari mariani più importanti delle alpi. Nei pressi del complesso sacro fu edificato, nel 1856, un enorme cascinale che, ampliato e ristrutturato, divenne il primo stabilimento idroterapico d’Italia, diretto dal dottor Guelpa prima e dal dottor Mazzucchetti poi. La posizione dell’edificio, circondato e quindi riparato dalla montagna, garantiva una temperatura costante (intorno ai 23° C) e piacevole. Lo stabilimento poteva ospitare fino a 400 persone, ed era dotato, oltre che di un bellissimo giardino esterno, di sala da biliardo, sala da lettura, ristorante. Per sfarzo e qualità dei servizi offerti (vi erano ben cinque sorgenti naturali e un’assistenza clinico- terapica d’avanguardia), Oropa Bagni divenne ben presto un punto fisso per le vacanze di molti aristocratici, biellesi e non: vi soggiornarono, tra gli altri, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Guglielmo Marconi, Eleonora Duse, esponenti della dinastia dei Savoia.

Lo stabilimento nel 1913

Lo stabilimento in una cartolina del 1913

Nel 1910, con la crisi dell’aristocrazia e della medicina termale, lo stabilimento fu venduto alla Curia di Alessandria che lo utilizzò come colonia estiva. Abbandonato negli anni ’20, fu acquistato nel 1987 dall’azienda acquifera biellese Lauretana, che affermò di voler riaprire le sorgenti chiuse e di riqualificare l’ambiente.

2013. Oggi.

3La strada che collega Biella al santuario di Oropa si snoda tra le balze della valle, e somiglia ad una qualunque tortuosa strada di montagna del nord Italia. In realtà, questa piccola strada porta con se una serie infinita di testimonianze del passato, del “glorioso” passato biellese. Le tracce più evidenti di questo passato sono quelle del suggestivo tram che collegò Biella e Oropa dal 1911 al 1958: dalla strada si possono ancora vedere ponti, resti (mutilati) della linea aerea, terrazzamenti e trincee del sedime tramviario. Con un po’ di sforzo (fisico) si può addirittura contemplare il bellissimo girone elicoidale costruito sopra la frazione del Favaro, vero e proprio capolavoro ingegneristico che offriva un panorama unico, oggi solo parzialmente contemplabile. Oltre alle tracce del trenino biellese [di cui parleremo più avanti], vi è un’altra costruzione “umana” che rapisce l’occhio dei più attenti. Già, perché non è così facile vederla, specialmente nel periodo estivo in cui la flora tende a riprendersi ciò che le appartiene. Superato il Favaro, all’altezza di quel capolavoro naturale che è il “Piano dei sette faggi”, i più attenti possono notare, in alto a sinistra, una gigantesca costruzione bianca, piena di finestre, misteriosamente sinistra nel suo essere priva di vita. È un contrasto emblematico, quello tra il bianco dei muri e il verde acceso dei boschi che li circondano.

1Quell’enorme edificio altro non è che lo stabilimento idroterapico di Oropa Bagni, da anni lasciato a se stesso e pericolosamente incline a crolli e devastazioni.

5Arrivare davanti allo stabilimento non è difficile: poco prima di arrivare al santuario, c’è una piccola stradina sterrata sulla destra (percorribile solo a piedi, in quanto dopo poche centinaia di metri vi è un primo sbarramento), una stradina un tempo percorsa da signorili carrozze ed eleganti signori in doppiopetto. I primi problemi si presentano giunti nei pressi dell’edificio.

Un cumulo di macerie.

Cos’è accaduto?

Verso la metà degli anni ’80, lo stabilimento subì un devastante incendio che ne minò pericolosamente il “braccio est”, quello che si trovava davanti arrivando dalla suddetta stradina. All’incendio, sicuramente doloso, fece seguito il clamoroso ritrovamento di alcuni oggetti rubati da un cimitero vicino, accompagnati da scritte “sataniche” sui muri e resti di poveri animali sgozzati. Subito l’alone romantico di Oropa Bagni lasciò il posto alla paura: per i biellesi, quel luogo un tempo fastoso e motivo di vanto divenne un postaccio da evitare, una sorta di santuario alla rovescia in cui si venera il diavolo invece che la madonna. Ovviamente, come spesso accade in questi casi, non avvenne nessun altro episodio del genere, ma Oropa bagni non riuscì mai più a cancellarsi la nomea di “posto maledetto”. Provate a scrivere su Google “Oropa Bagni”, e guardate qual è il primo suggerimento della barra di ricerca.

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DSC_6936Dopo l’incendio, tuttavia, lo stabilimento divenne uno scheletro di mattoni decisamente pericoloso. Certo, vi sono parecchi cartelli e sbarramenti a vietarne l’avvicinamento pedonale, ma l’edificio è comunque molto vicino ai sentieri boschivi della zona, e nei suoi pressi vi è una parete di roccia da arrampicata. Dunque, per evitare di svegliarsi una notte sentendo un boato, il sindaco di Biella e le autorità competenti decisero di abbattere l’ala dell’edificio in cui, vent’anni prima, era scoppiato l’incendio. L’ala più indebolita, quella che maggiormente rischiava di crollare. Nel 2011, quell’ala sparì per sempre. Le tre foto sopra restano tra le poche testimonianze della sua esistenza. Sotto, ciò che ne resta oggi.

Ecco perché, oggi, arrivando ad Oropa Bagni, vi trovate davanti un cumulo di macerie. Ma se avrete la voglia (e il coraggio) di scavalcarle – o, forse è meglio, girarvi attorno – davanti a voi apparirà lo scheletro di quello che un tempo era un motivo di vanto per il biellese e che oggi, purtroppo, è solamente un rudere silenzioso. Che, prima o poi, crollerà totalmente e sarà inghiottito dalle piante.

Dentro Oropa Bagni

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10Nonostante il secolo di abbandono, si possono ancora notare gli splendidi particolari architettonici della struttura: arcate, affreschi, decorazioni di ogni tipo. Non è difficile capire perchè l’aristocrazia biellese (e non solo) scegliesse questo luogo per trascorrere il proprio tempo libero. Si notano, purtroppo, anche le scritte dei cosiddetti “satanisti” o di semplici “graffitari”, atti di vandalismo e danni dettati dall’abbandono.

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Grazie a Marco Pignolo per le foto e la disponibilità.

http://www.pigno.it/

http://www.ricordinellapolvere.it/

 Tutte le foto sono state scattate da Marco Pignolo, eccetto la prima.

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