Reportage realizzato da Riccardo e Francesco Poma, testi e fotografie di Riccardo Poma
Leggende. Quando ero più piccolo – dovevo avere sei o sette anni – ricordo che qualcuno mi raccontò che, in un boschetto poco lontano da casa mia, meta sicura dei cosiddetti “fungiàt”, c’era un “bunker” della seconda Guerra Mondiale. Qualche tempo fa, più o meno nel periodo in cui ci venne l’idea di creare questo blog, mi ritrovo a chiedere a mio padre – Fungiàt DOC – se sa indicarmi qualche vecchio luogo abbandonato dalle nostre parti. “C’è un bunker nella Baraggia”, mi dice, “ma non mi ricordo dov’è”. Il paese è piccolo, e basta lasciarsi scappare una parola di troppo al bar che tutto diventa di dominio pubblico. Non solo: il piacere della scoperta alberga in ben più anime di quante si creda. E così via, per più di un mese l’argomento più gettonato al bar è proprio il famigerato bunker.
“Devi addentrarti tra i campi di grano”, dice qualcuno. “Ma no”, ribatte un altro, “è in mezzo alle risaie!”. “Figurarsi”, aggiunge il terzo, “non ci sono funghi nelle risaie e nei campi di grano: è in mezzo a un boschetto!”
Parte allora la nostra indagine. Identifichiamo la porzione di territorio in cui “deve” trovarsi la costruzione – l’unico elemento su cui tutti i clienti del bar, agricoltori, girovaghi e cantastorie, si trovano d’accordo – e, attraverso Google Earth, iniziamo a cercare “dall’alto” qualche segno di costruzione. Detto così sembra facile, ma le nostre zone di campagna non possono certo contare su immagini ad alta definizione (se si guarda il Central Park di New York, si riesce a stabilire addirittura di che razza sono i cani a passeggio), e la modalità Street View è soltanto una chimera (del resto, chi ha bisogno di osservare territori in cui nessuno va mai?). Vedo un luogo che potrebbe rispecchiare le caratteristiche di un bunker, almeno per come me lo immagino io: vicino a delle piante, lungo e stretto. Il fatto che a fianco abbia delle risaie non deve ingannare: i campi non c’erano negli anni ’40, era tutta baraggia. Posto ideale per nascondere qualcosa (anche perchè Google Earth non c’era). Stampo la mappa, carico macchina fotografica e cavalletto e partiamo. Giunti sul posto, sui nostri volti appare la prima delusione delle tante che incontreremo durante la nostra ricerca: il luogo visto dal satellite non è altro che un piccolo box di mattoni in cui qualche agricoltore del luogo parcheggia trattori a attrezzi agricoli. Nulla da fare, si torna a casa.
Confrontando questa foto con la prima in alto si può notare quanto l’ambiente cambi a seconda della stagione.
Ripartiamo qualche giorno dopo, percorrendo una strada alternativa. Arriviamo vicino ad un altro boschetto, ma ad un certo punto la strada ci è interrotta da un fiumiciattolo. Non ci fidiamo ad attraversare, anche perché non disponiamo di Jeep ma di una normalissima utilitaria. Facciamo qualche passo a piedi, ma nel bosco non riusciamo a scorgere nulla. Seconda delusione, anche se questa volta la sensazione è diversa: ho sentito, per la prima volta, di essere sulla buona strada. Non credo a questo tipo di cose, non ci ho mai creduto. Ma quel bosco mi ha colpito, ho sentito che se c’èra, il bunker doveva essere da quelle parti.
Torniamo a casa, di nuovo davanti al PC. Utilizzando l’applicazione che consente di vedere le foto aeree più vecchie, il boschetto ci appare come era nel 2001. Non una grande differenza, per carità, ma in almeno tre punti scorgiamo qualcosa che ci potrebbe interessare, e ormai ci interessa davvero ogni dettaglio. In un punto si vede, tra il verde degli alberi, una macchia regolare più chiara, che sembra riflettere la luce del sole. In altri due punti, anche se meno chiaramente, notiamo la stessa cosa.
“E’ qui”, penso, “ non può essere che qui”.
Giornata piovosa. Circa una settimana dopo, decidiamo di ripartire. La giornata è piovosa, ma verso le due del pomeriggio le nuvole, pur restando in zona, concedono un po’ di tregua. Da un lato cantiamo vittoria, in quanto la calura di Agosto ci lascia un po’ di tregua (non è molto bello camminare tra le risaie con 35 gradi), dall’altro sappiamo che la nostra ricerca diventa più difficile, in quanto il grigio del cielo rende tutto più sbiadito: ciò che ci interessa si trova probabilmente nella fitta boscaglia, e senza il sole come complice diventa difficile vederlo, anche se si è molto vicini. Si parte.. Prendiamo la nuova mappa – in cui abbiamo evidenziato le tre possibilità – e ci addentriamo nuovamente nella baraggia. Parcheggiamo la macchina nel punto in cui le stradine sterrate portano il più vicino possibile al boschetto – che in realtà è lungo circa un chilometro e, in alcuni punti, spesso 300 metri – e, a piedi, ci addentriamo tra le piante. Dopo circa dieci minuti di cammino, scartiamo la prima ipotesi: secondo la mappa, la prima delle tre zone più chiare dovrebbe trovarsi vicino al sentiero che stiamo percorrendo, ma nonostante un controllo preciso non riusciamo a vedere nulla. Secondo tentativo: ci spostiamo in direzione della macchia più chiara, quella che più di tutte mi sembrava papabile per il bunker. Di nuovo in cammino, ma questa volta non su un sentiero, bensì sulla spalla di una risaia. La prima parte è facilmente praticabile, la seconda diventa un po’ più complicata perché la terra è sovrastata da grossi arbusti (e qui mi vengono in mente tutte quelle persone che mi dicevano “vi conviene andare d’inverno”…). Arriviamo al confine tra il bosco e la risaia.
Mi addentro sulla linea che separa il verde (delle piante) dal giallo (del riso), e inizio a camminare guardandomi continuamente intorno. Nel bosco si vedono betulle e pioppi, l’erba è alta e tra le file di alberi ci sono spazi pianeggianti: luogo ideale per i funghi, penso, e mi convinco che siamo sulla buona strada. Mi sembra di vedere qualcosa, ma tra il concatenarsi degli arbusti e la vastità del bosco, non riesco a distinguere nulla. Decido di entrare. L’erba mi arriva al petto (io sono alto circa un metro e novanta) e ad ogni passo sento i piedi affondare nella melma. I rovi mi sbattono contro i pantaloni, aggrappandovisi e lacerando alcune parti di tessuto (e, di conseguenza, la pelle delle mie gambe). Non vedo nulla, solo alberi, finché mi imbatto in una distesa più chiara, sabbiosa. La voglia di imprecare – vista anche la mia posizione affatto confortevole – è più forte che mai. Quella macchia più chiara, vista dal satellite, non è altro che una piccola distesa regolare di sabbia. La delusione si fa grande.
Torno indietro, dove mi attende mio fratello.
“Niente?” “Niente”. Ci incamminiamo nuovamente sulla spalla della risaia, convinti che nemmeno questa volta troveremo qualcosa. Il bunker. Un traccia. Qualunque cosa. Niente.
Decidiamo di lasciar perdere la terza macchia, troppo simile alle altre due per essere qualcosa di diverso. Torniamo indietro, in auto, e decidiamo, pur non coltivando più alcuna speranza, di tornare vicino a quel fiumiciattolo che tempo prima non avevamo guadato. Questa volta abbiamo un’auto più alta, e decidiamo di attraversare il rigagnolo. Giunti sull’altra sponda, ci troviamo su una stradina che costeggia il bosco. La percorriamo a passo d’uomo, osservando accuratamente, scendendo quando ci sembra di aver visto qualcosa, ma in breve tempo siamo di nuovo al guado.
“Niente”, dico, “è andata male. Probabilmente non c’è più… Magari l’hanno spianato per fare una risaia, o forse la vegetazione è riuscita a distruggere anche il cemento armato”.
Attraversiamo il fiumiciattolo, e costeggiamo l’ultimo pezzetto di bosco prima di tornare sulla stradina che ci ha portato lì.
“Vai piano”, dice mio fratello. “Tanto non c’è nulla”, rispondo io, sconsolato.
Ma abbiamo fatto trenta, facciamo trent’uno. Lo accontento, più che altro per fargli capire che apprezzo il suo tentativo di risollevarmi dalla delusione. Guardo il boschetto, in cerca di un’ultima traccia che non mi spinga ad abbandonare per sempre questa ricerca.
Particolare dell’entrata. I tondini di ferro del cemento armato si confondono con i rami degli alberi.
“Ferma!”, mi dice. Mi volto nella direzione che mi viene indicata col dito. “Lì”, dice, “il rigagnolo fa un giro strano, sembra convogliato dall’uomo”. “Ovvio”, dico io, “in terra di risaie non c’è nulla che non sia convogliato dall’uomo. Ogni corso d’acqua viene deviato per passare vicino alla risaie, che notoriamente non possono vivere senz’acqua”.
“Può darsi”, risponde lui, con gli occhi luccicanti, “ma per me siamo vicini”.
Impossibile, penso. Qui il boschetto sarà largo si e no venti metri, come si può costruire un bunker in una zona così piccola.
Torno a guardare la strada, iniziando ad accelerare per tornare verso casa. Poi, d’un tratto, do un’ultima occhiata verso quell’intricato, infernale boschetto. E finalmente, dopo quasi un mese di ricerche, lo vedo.
Eccolo. Dando quell’ultima, fulminea occhiata, ho scorto qualcosa che, nei meandri del mio cervello, ha fatto partire un’equazione che si potrebbe riassumere in questo modo: natura = linee irregolari; costruzioni umane = linee regolari; cosa ci fa una linea regolare in mezzo ad un boschetto in cui dovrebbe esserci soltanto natura? Scendo dalla macchina sbraitando come un ossesso.
“Eccolo!”, urlo, “eccolo, eccolo, eccolo!”
“Ma dove?”, urla mio fratello.
“E’ regolare”, dico, “è regolare! Non può essere un albero, non può!”
Mi inchino per avere una buona visuale tra gli arbusti, e mio fratello si avvicina.
E lui è lì.
Abbiamo fatto molte ipotesi, da quando l’abbiamo trovato. Non abbiamo detto a nessuno dove si trova, perché non vogliamo che tutti quelli che ne conoscono l’esistenza (ma che se ne erano dimenticati da anni e non ricordano dove si trovi) lo facciano diventare meta turistica per ragazzini in cerca di avventura o giaciglio misterioso per innamorati in cerca di camporelle selvagge. O forse non l’abbiamo detto a nessuno perché, con un po’ di egoismo, ci sembra ingiusto che qualcuno lo trovi facilmente mentre noi lo abbiamo cercato per più di un mese. Sappiamo certo che non si tratta di una scoperta sensazionale, ma nel nostro piccolo è stato come scoprire un nuovo pianeta, ci siamo sentiti Armstrong e Collins che mettevano piede sulla Luna per la prima volta. Abbiamo fatto ricerche accurate, ma non siamo riusciti a trovare notizie sulla costruzione di quel deposito. Già, deposito, perché quella costruzione non è certo un bunker nel vero senso della parola: non ha feritoie per sparare, e l’entrata – la “botola” – d’ingresso è lunga due metri e larga uno, cosa che ci fa escludere che dentro vi si potessero introdurre armi pesanti. Solo armi di piccolo calibro (pistole e fucili) e persone potevamo avervi libero accesso. La sua posizione e il fatto che sia costruito in cemento armato, comunque, fa escludere che si tratti di una costruzione civile. Fu edificato in quel punto e con quei materiali per almeno due ovvie ragioni: tenerlo nascosto a chiunque non ne conosceva la presenza; ospitare al suo interno materiali – o persone – per proteggerli dagli eventi esterni (bombe, intemperie, ecc). L’ingresso, oggi, è chiuso da un’enorme quantità di terra, probabilmente riversatasi all’interno in quasi settant’anni di assenza umana. Scoprire come fosse all’interno o recuperare vecchi reperti che sicuramente ne svelerebbero l’identità appare oggi, se non impossibile, altamente improbabile: bisognerebbe estrarre centinaia di tonnellate di terra da una botola 2X1, e il comune di Masserano, cui appartiene il boschetto, non ha alcuni interesse in questo momento a spendere soldi in un’opera così monumentale.
Ipotesi:
È un deposito di armi della Prima Guerra Mondiale. Questa prima ipotesi ci è stata suggerita da alcuni studiosi del luogo, che hanno scoperto attraverso alcune ricerche che nella baraggia, prima del conflitto mondiale, venivano fatte delle manovre militari con lo scopo di “addestrare” i soldati che dovevano partire per il fronte. Di conseguenza, i comandi avrebbero avuto bisogno di depositi ben nascosti per lasciare le armi nei momenti di inattività. Due gli elementi che spingono però a scartare la teoria: innanzitutto, nel 1914 il cemento armato si usava più che altro per costruire lapidi e tubature, e non era ancora impiegato per costruire edifici; altresì, sul soffitto dell’entrata del deposito non si trovano mattoni pieni, bensì tavelle (mattoni forati), introdotte nell’edilizia soltanto in periodi successivi.
È un deposito delle Ferrovie. La vicinanza – relativa – dell’edificio rispetto all’ex Stazione di Masserano ha portato alcuni studiosi a pensare che si tratti di un deposito delle ferrovie statali. In realtà la stazione, costruita da privati negli anni trenta, divenne statale soltanto negli anni ’60, e di conseguenza lo stato, durante la guerra, non avrebbe avuto interesse a preoccuparsi delle sue condizioni. E poi deposito per cosa? Macchinari? La porzione di terreno tra stazione e Bunker, un tempo, era tutta boschiva: come si sarebbero potuti spostare i suddetti macchinari (per la manutenzione, ad esempio) attraverso quel percorso? E, soprattutto, come li avrebbero fatti entrare nel bunker, considerando che la botola d’accesso occupava circa due metri quadrati? Le domande non sono finite: perché interrare un deposito di attrezzi? Non lo si poteva fare alla luce del sole?
È un bunker della seconda guerra mondiale, costruito dall’esercito italiano. Questa ci sembrava l’ipotesi più realistica, almeno considerando la posizione nascosta dell’edificio, l’impiego del cemento armato e l’esistenza – evidente, considerando che all’interno c’è una botola – di un vano interrato. La mancanza di feritoie per l’artiglieria svela che certamente non fu costruito per azioni di guerra: piuttosto, è probabile che fosse un deposito segreto di armi. Costruito prima della Guerra, non venne poi utilizzato perché la zona baraggiva in cui si trovava era frequentemente occupata dai partigiani, che dominavano il territorio protetti dalle fitte boscaglie. I partigiani, a loro volta, non lo utilizzavano perché l’esercito ne conosceva la collocazione.
È un deposito della Fornace. Non troppo lontano dal luogo in cui si trova il bunker sorge, ormai abbandonata da anni, l’ex fornace di Masserano. Si dice che durante la Guerra i proprietari della fornace avesse preso accordi con l’esercito per ospitare un piccolo reparto in cui produrre armi di piccolo calibro (pistole e fucili). Se la fornace fosse stata bombardata, qualcuno poteva avere l’ordine di portare più armi possibili all’interno della struttura, situata a circa un chilometro e mezzo di distanza e facilmente raggiungibile attraverso le strade sterrate che, in quei tempi, venivano costruite dai possidenti per raggiungere i propri terreni. Un’altra ipotesi che non potevamo scartare: il fatto che a costruire l’edificio possano essere stati “esperti di edilizia”, svelerebbe il perché delle tavelle, mattoni ancora scarsamente utilizzati dalla maggioranza ma già presenti in qualunque fornace.
È un deposito successivo alle due guerre. Gli abitanti di Castelletto Cervo e Masserano ci raccontano che, negli anni ’60, l’esercito raggiungeva spesso le zone baraggive per svolgere delle esercitazioni con tanto di carri armati e artiglieria pesante. Dunque, l’edificio potrebbe non essere nient’altro che un piccolo deposito che i soldati utilizzavano durante queste manovre. Questa ipotesi, forse la meno poetica, non è comunque da scartare.
Molte ipotesi e idee abbiamo raccolto durante le nostre ricerche – addirittura, qualcuno ci ha detto che potevano essere “chiuse” (anche se il “fiume” che passa vicino alla costruzione è largo un metro e profondo dieci centimetri) o una struttura privata (!) – e, sinceramente, non siamo riusciti a venire a capo di niente.
Particolare dell’ingresso sotterraneo. L’alberello cresciuto all’interno fa presupporre che l’intero edificio sia stato riempito di sabbia e terriccio, probabilmente nel periodo in cui la Baraggia fu bonificata per fare spazio alle risaie.
Il partigiano Dante. Durante il secondo conflitto mondiale, la baraggia fu sicuro nascondiglio di molti plotoni partigiani. La fitta, intricata boscaglia ospitò centinaia di ribelli che, grazie anche al sostegno delle popolazioni limitrofe, potevano sfuggire ai tedeschi e allo stesso tempo controllarne gli spostamenti: la zona baraggiva arrivava fino alla strada – ancora percorribile – che portava da Biella a Vercelli e viceversa, una tratta privilegiata dai nazifascisti che spostavano armi e prigionieri da una “grande città” all’altra. Proprio parlando con uno di questi partigiani, Dante Aglietti, abbiamo scoperto che il bunker si trovava già in quei boschi durante la guerra e che, addirittura, ve ne erano altri cinque, a formare una sorta di “esagono” in mezzo ai boschi che circondava idealmente le Quattro Madame. La testimonianza del partigiano Dante, unita ad alcune ricerche effettuate dal vicesindaco di Castelletto Cervo, ci ha svelato molti misteri riguardanti il bunker. Si tratta di una struttura militare costruita a cavallo delle due guerre, probabilmente intorno al 1935. Il suo scopo era quello di addestrare i giovani militari ad alcune gravi situazioni belliche, come ad esempio il bombardamento aereo. Non a caso a poche centinaia di metri dal bunker sorge la cascina delle Quattro Madame, edificio abbandonato negli anni venti del ‘900 che venne utilizzato come bersaglio – mai colpito (!) – per le manovre dell’aeronautica. I sei bunker dovevano quindi servire per stipare materiale bellico e per ospitare i militari durante le prove di bombardamento. Anche questa teoria non possiede fonti documentate, ma ascoltando diverse testimonianze ci è sembrata la più veritiera.
Noi un bunker l’abbiamo trovato, ora non resta che trovare gli altri cinque.
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Ciao, eri a conoscenza di questa imponente esercitazione militare nella Baraggia del 1958? Magari il bunker è stato usato in quell’occasione e proprio li richiuso… dall’archivio de la stampa del 30 luglio 1958 (erano impiegati 35000 uomini!):
Gattinara, 30 luglio 1958. L’operazione « Freccia azzurra II > è entrata oggi nella sua fase culminante e si può dire senz’altro che abbia vissuto la sua giornata principale. Di buon’ora un folto gruppo di ufficiali superiori si era raccolto in cima alla collina che sovrasta Gattinara, detta Castel San Lorenzo (quota 376), per seguire di lassù le fasi del primo urto. Dicono che questa’ collina servisse già come posto di osservazione al re Arduino. Tempo bello. Spira dal Nord una brezza leggera, spazzando via progressivamente le nebbie della pianura. I canocchiali più potenti puntati sui fiume Sesia non permettono di scorgere nulla di eccezionale. Eppure sulla sua sponda sono ammassati i due eserciti pronti ad affrontarsi. Il mascheramento è quindi perfetto. Si sa che il partito azzurro, il quale occupa la sponda sinistra, attacca da un momento all’altro. Ma quando? Dove? Come? Esso dispone di due divisioni (più una terza supposta), la « Centauro > e la più due divisioni segnate soltanto sulla carta. Esso ha di sposto capisaldi d’una certa entità sulla destra del Sesia, a Gattinara, Lenta, Ghislarengo, Arborio. Si presume che il suo comando risieda a Rovasenda. Alle ore 6,10 la tranquillità generale è rotta da quattro boati consecutivi: altrettanti « ordigni atomici » lanciati da artiglierie sono esplosi (beninteso in via puramente ipotetica) nei pressi di Gattinara, Lenta, Ghislarengo, Arborio. Con una miscela di tritolo e nerofumo si ottengono quattro impressionanti « funghi » di un’altezza variabile fra i 60 e i 150 metri, con fondo bianco e tetto nero. E? la pallida imitazione d’uria realtà cui tutti sperano di non dover mai assistere. Gattinara è un caposaldo della forza di circa un battaglione. L’ordigno atomico ha colpito con il punto 0 le vicinanze del comando, polverizzandolo. I giudici di campo calcolano che il suo comandante sia morto insieme ad almeno metà dei suoi effettivi. Sui resto, offeso dalle radiazioni, si abbatte un fuoco tambureggiante di artiglieria della durata di circa 35 minuti. Quando si sta per finire, ecco una densa cortina di fumo. Se tutto è finto, questa è vera. Partendo presumibilmente da Romagnano e con parecchi punti intermedi di alimentazione, essa copre per intero tutto il tratto dei Sesia oggetto dell’operazione e due terzi di Gattinara. E’ un accecamento totale.
Se vuoi contattami, mi piacerebbe approfondire questo argomento (e gli altri) io sono di Torino, con la tua stessa “passione” potremmo esplorare qualcosa insieme?
saluti
Per quanto riguarda la costruzione invece, visti i tondini lisci e il cls armato + muratura, azzarderei essere contemporanea alla bonifica (avvenuta nel 1933) sempre dall’archivo storico della stampa 14 Febbraio 1933 si parla dell’imponente bonifica (la scansione della pagina non aiuta e non posso postarti l’articolo)
mmm..opto per una polveriera. soprattutto per tre cose: la struttura é cieca, ha una camera interrata, i muri sono armati ma il soffitto é in tavelle. Questo permette in caso di esplosione di far trovare una linea di forza/scarico verso l’ esterno. Potrei scommettere che in sezione laterale assomiglia a una piramide o mezzo cono ( mezzo longitudinalmeta) appoggiato a terra. In questo caso la massa di terra che la copre non è dovuta a crollo ma voluta ( meno visibile dall’ aereo)
Grazie Gio in effetti si somiglia ad una piramide! Direi che ci hai visto giusto 😀
ok, continuiamo l’ ipotesi. Militare no. Guarda Remondò le interrate. Poi avresti segni di recinzione, basamenti di garritte, ingresso frontale, maggior isolamento dall’ umido…Partigiana: ni, troppo poco difendibile, semmai riutilizzata ma preesistente. La lancio: deposito di dinamite? Sbancamenti? delle Ferrovie/ strade/ acquedotti/ canali? Comunque bel sito, belle foto. Bravi.
Grazie Gio per queste nuove ipotesi!