UNA TIPICA AZIENDA AGRICOLA VERCELLESE

VIAGGIO AL PAESE FANTASMA DI VETTIGNE’

Testi e fotografie di Riccardo PomaDSC_0168

E’ da qualche anno che ci giriamo intorno, raccontandovi posti lì vicini come il piccolo cimitero abbandonato, il Maialetto e quella costruzione che appare nell’articolo L’isola (per la cronaca, le nostre sono le uniche ed ultime foto scattate a quel posto: “l’isola” è stata abbattuta per far spazio, indovinate un po’, ad altre risaie). Ora, finalmente, siamo arrivati al dunque, ovvero alla piccola frazione di Vettignè, comune di Santhià, un vero e proprio piccolo paese (una volta era addirittura comune dipendente, con Chiesa, scuole, osteria, botteghe) costruito in the middle of nowhere, che dalle nostre parti si traduce con “in mezzo alle risaie”.

DSC_0211La storia. Intorno all’anno mille vennero edificati i primi edifici, esattamente dove ora vediamo la chiesetta e lo stabile principale. Perchè proprio li? Le risaie non c’erano ancora, dunque perché costruire edifici nel bel mezzo del nulla? Perchè quelle prime, antiche mura furono edificate sul crocicchio tra due trafficatissime “vie” di comunicazione, la via Svizzera e la via Francigena. Il nome Vettignè deriva proprio da Vectigal, il dazio che si pagava per ottenere il diritto di passaggio dal borgo. Grazie a questo stratagemma, gli abitanti di Vettignè si arricchirono velocemente, e nel XV secolo il borgo venne ampliato: dietro il nucleo originario fu edificato un lussuoso castello, con tanto di torre a pianta circolare di ragguardevole altezza. Intorno al 1500, causa aumento demografico, vennero costruiti i due bracci laterali, che chiusero queste prime strutture a formare uno spazioso cortile. Infine, con l’avvento delle colture risicole (1700 circa), Vettignè divenne una vera e propria azienda agricola. Che, vista la dimensione degli ampliamenti, era probabilmente tra le più floride della zona: partendo dal nucleo originario, infatti, sui lati vennero edificati una serie importante di nuovi edifici atti ad ospitare la manovalanza necessaria per gestire tutta quella terra. Il già spazioso borgo di Vettignè, dunque, divenne una cascina grandissima, un piccolo paesino autonomo (fu comune tra il 1700 e il 1800) dall’enorme cortile, ancora oggi tra i pochissimi interamente “cintato”.
Il castello appartene a lungo ai Vialardi di Verrone, per poi passare ai Dal Pozzo e infine al ramo Savoia-Aosta.

La leggenda. Secondo una leggenda che ancora oggi molti considerano veritiera, il piccolo Borgo di Vettignè diede i natali al perfido capitano di ventura Bonifacio “Facino” Cane (1360 – 1412), crudele mercenario che terrorizzò l’Italia settentrionale tra il XIV e il XV secolo. Al soldo di Teodoro II del Monferrato, che gli affiancò – si dice – ben 400 cavalieri, tra il 1391 e il 1397 Facino Cane invase e saccheggiò gran parte del Piemonte, lasciandosi dietro un’impressionante scia di sangue e violenza. Gli unici borghi risparmiati dalla sua furia furono Santhià e Vettignè, cosa che indusse molti a pensare che qui egli fosse venuto al mondo. Altre fonti sostengono che Cane fosse nato a Casale Monferrato, ma ancora oggi sono molte le voci fuori dal coro.

Tempi (più o meno) recenti. Nonostante appartengano ad epoche più recenti, anche gli edifici posti fuori dalle mura conservano un grande interesse. Dietro le mura posteriori c’è ancora il bellissimo mulino, attraversato dal canale e perfettamente conservato con i suoi ingranaggi e le sue ruote. Vicino, un edificio risalente agli anni ’30 – ’40 (a svelarne la data di costruzione è l’architettura, molto “fascista”) che ospitò refettorio (piano terra) e dormitorio (primo piano) per le mondine di stanza a Vettignè. Ancora conservati sono i bagni, le docce, i lavabi e una piccola fontana ancora attiva. Altra testimonianza degli influssi fascisti sull’agricoltura locale è la ancora visibile, enorme scritta su uno dei muri esterni, che riporta il celebre motto “è l’aratro che lascia il solco, è la spada che lo difende”. Più antichi sono invece la chiesa, risalente al 1742 (costruita perché quella del borgo era diventata piccola per tutti quegli abitanti), e il piccolo cimitero, databile intorno al 1800 e costruito distante dalle abitazioni per ovvi motivi.

Oggi. A partire dal 1960 – col boom economico, la corsa alla fabbrica e alla città, l’avvento di nuovi metodi agricoli – il piccolo borgo di Vettignè cominciò pian piano a spopolarsi. Gli ultimi abitanti fecero i bagagli all’inizio degli anni ’80, nonostante alcuni edifici (la scuola, l’osteria) fossero ancora regolarmente funzionanti. Dal 1998 la parte principale del borgo è in mano alla gentilissima e volenterosa Enrica, che ha ristrutturato parti del complesso e, dal 2006, le ha adibite a grazioso Bed and breakfast. Tuttavia, rimettere in sesto Vettignè nella sua interezza è operazione assai costosa e difficilmente sostenibile da privati. Come se non bastasse, l’ala verso Santhià è stata in tempi recenti divelta da una potentissima tromba d’aria, mentre parte della vecchia casa padronale, uno degli edifici più antichi del complesso, è crollata sotto il peso dei suoi secoli. Le vecchie abitazioni, le stalle, il castello, la chiesa, stanno tornando polvere a causa degli anni e della poderosa natura che, priva di interventi umani, si sta riprendendo le terre che le appartennero.
Un gran peccato, perchè Vettignè resta un luogo magico e unico, un glorioso esempio dell’antica economia agricola vercellese. Non è difficile immaginarsi quell’immenso cortile ancora popolato: bambini che corrono, mucche che pascolano, i vecchi che se la raccontano, le donne che passeggiano coi neonati, gli uomini che scaricano carri trainati da buoi e si godono il meritato riposo dentro l’osteria. Come in una vera e propria città. Come in una comunità, di quelle che da tempo non siamo più in grado di creare.

NOTA: un immenso grazie a Enrica, per la sua disponibilità e per averci fatto scoprire questo angolo di paradiso. Un paradiso iscritto ai Luoghi del Cuore, quindi, in cambio della storia che vi ha e che vi abbiamo raccontato, regalategli il vostro voto.

Una rarissima cartolina di Vettignè, datata 1948. A destra, si può vedere la parte medievale oggi crollata.

Una rarissima cartolina di Vettignè, datata 1948. A destra, si può vedere la parte medievale oggi crollata.

Thanks to Franci

 [Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2014]

LA CITTA’ (FANTASMA) DELLA LANA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

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BIELLA. Su un blog che parla anche (e soprattutto) di edifici presenti sul territorio biellese, non poteva mancare un post che raccontasse da vicino la “Biella tessile”, una sorta di civiltà ormai estinta e decaduta (i grandi brand che ancora si salvano appartengono quasi tutti a stranieri) sulla quale si sviluppavano i ritmi e le abitudini di un’intera città. L’industria tessile biellese conobbe un periodo di grande prosperità che attraversò tutto il ‘900, salvo poi spegnersi agli albori del terzo millennio. Biella non era solo una capitale del tessile italiano: il suo valore industriale era riconosciuto anche a livello internazionale.

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La maggior parte di questi lanifici (come il lanificio Cerruti, tra i pochi ancora particolarmente attivi) venne edificata sulle sponde del cervo, fonte inesauribile di acqua da utilizzare per le operazioni più disparate. Tolte le implicazioni legate all’inquinamento, che sarebbero sorte soltanto molto tempo dopo (molte ditte si liberavano degli scarti lasciandoli “cadere” lungo il torrente), questa ubicazione si dimostrò vincente, e garantì ai lanifici biellesi una prosperità inaspettata.

Al giorno d’oggi, vi sono almeno due grossi complessi tessili abbandonati nella zona di Biella città. Il primo si trova sul Cervo, poco prima del ponte di Chiavazza, e negli ultimi anni è stato ristrutturato dal ministero dei beni culturali. Addirittura, dentro uno di questi edifici riportati alla vita (per la precisione la manifattura Trombetta), è stata aperta cittadellarte, una fondazione museale voluta e gestita dall’artista Michelangelo Pistoletto.

Ai lanifici Rivetti, invece, non è andata così bene.

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Situati poco più giù rispetto ai lanifici Trombetta – dopo il ponte di Chiavazza e prima della stazione ferroviaria, ma sempre lungo il corso del Cervo – i complessi del lanificio furono edificati intorno al 1879, come sedi distaccate dello stabilimento principale di Mosso. Giuseppe Rivetti, fondatore dell’impero, comprese subito l’importanza di quella locazione: a ridosso di un torrente, vicino ad una stazione ferroviaria[1], in una posizione periferica che permetteva di ampliare il complesso, ben visibile da chiunque giungesse a Biella dalla pianura. Per queste ragioni, lo stabilimento biellese divenne presto il cuore pulsante dell’azienda, e dal 1900 circa iniziò a specializzarsi nella produzione di (richiestissimi) cascami di rayon. Il complesso si estendeva su una superficie di 47mila mq, per una valore attuale di immobili e terreni vicino ai 4 milioni di euro.

4Si tratta di due foto scattate dal ponte sul Cervo. Unite, mostrano i lanifici Rivetti in tutta la loro lunghezza [clicca sulla foto per vederla in HD]

L’attuale via Repubblica ospitava l’ingresso dei lanifici, che si estendevano a perdita d’occhio fino a metà dell’odierna via Carso. Lo spiazzo conosciuto come il “parcheggione” e la strada che collega via Cernaia a via Carso non esistevano: al loro posto c’erano gli edifici del lanificio, “uniti”, che solo nel 1987 furono abbattuti per modificare la viabilità del quartiere. Osservando l’ultima parte del complesso di via Carso ben si può comprendere questa “rivoluzione spaziale”. Sulla parete che da verso la strada, infatti, sono ancora ben visibili i segni dell’abbattimento/ smembramento di cui fu vittima l’edificio: la parete mostra le tracce di un altro stabile appoggiato su di essa, così come le travi in ferro tagliate di netto suggeriscono la presenza di una continuazione dell’edificio.

“Il complesso dei lanifici Rivetti si presentava come una vera e propria città industriale adiacente alla città; edifici pluriplano adibiti agli uffici e ai servizi erano accostati a unità produttive a sviluppo orizzontale” (Biella e Provincia, Touring Editore, 2012, p.51)

Tra il 1939 e il 1941 i Rivetti affidarono all’architetto Giuseppe Pagano l’ampliamento del lanificio. Pagano, la cui storia merita un approfondimento particolare[2], concepì uno stabile modernissimo – in contrasto con quello ottocentesco situato a Nord – che rimane anche uno degli esempi più significativi di quell’architettura razionalista tanto ammirata dal Duce: nessun orpello estetico o cromatico, nemmeno i più elementari; impronta visiva tanto imponente quanto “ordinata”; massima importanza alla “funzionalità” e minima importanza all’estetica. L’edificio si compone di un grosso corpo centrale parallelo alla strada, costruito su cinque piani in cui la lavorazione si svolgeva, contrariamente a quanto avveniva nelle fabbriche ottocentesche, dall’alto verso il basso. Pagano calcolò che sarebbe stato meno dispendioso trasportare in alto le materie prime, lavorarle lungo i piani e infine farle scendere al piano terra come prodotto finito, piuttosto che farle partire dal basso per poi dover nuovamente “far scendere” il lavorato. Perpendicolarmente all’edificio centrale, vennero costruiti due corpi di fabbrica adiacenti che culminavano con due altissime torri rettangolari. Tra le innovazioni architettoniche presenti nell’edificio, si fa notare la copertura “a shed” del troncone Sud, una sorta di soffitto in vetro che permetteva miglior illuminazione e maggior circolazione dell’aria. Dopo alcuni lavori di ampliamento, svolti intorno al 1953, il nuovo edificio venne ceduto dai Rivetti (che vendettero le azioni e, di fatto, condannarono a morte l’azienda) e divenne una pettinatura autonoma, chiamata appunto Nuova pettinature riunite.

Oggi

Non sappiamo con certezza in che anno gli stabilimenti chiusero i battenti. Sicuramente, a metà degli anni ’90, alcuni padiglioni delle Pettinature Riunite erano ancora aperti, nonostante lavorassero ad un regime piuttosto ridotto. Oggi, invece, entrambi gli stabili (sia quello ottocentesco che quello progettato da Pagano), versano in pessime condizioni. Sono ormai due stabili distinti, in quanto tra loro è stata costruita la moderna sede della Biverbanca. L’entrata del lanificio, sita in via Repubblica, è stata restaurata e il palazzo alle sue spalle è stato ribattezzato Palazzo Rivetti. Per quanto riguarda i due grossi stabili di via Carso, invece, il degrado è oramai totale e selvaggio.

Torre Nord

Entrare dentro lo stabilimento ottocentesco è piuttosto facile: c’è un buco nella recinzione che pare fatto apposta per far passare un visitatore alla volta. L’importante è avere lo stomaco forte: dopo circa una decina di metri tra erbacce, alberelli, siringhe, vetri rotti, si arriva nel piazzale della fabbrica; il giro turistico può partire, ma state attenti perché lo stabilimento è diventato una casa per gli homeless della zona, e non tutti – ad esempio quelli che ho trovato io – sono felici di farvi fotografare il loro giaciglio. Per quanto riguarda invece lo stabilimento moderno, quello progettato da Pagano, l’entrata è oramai impossibile. Ci sono lucchetti e porte chiuse ovunque, e l’unico muretto che permette di scavalcare ed entrare (ammesso poi che si riesca ad uscire una volta dall’altra parte) si affaccia su una banca sorvegliata da decine di telecamere.

Geometrie

Enormi, freddi, divorati dalle piante, silenziosi (apparentemente), questi due enormi edifici sono la testimonianza diretta della fine di una civiltà, la pietra tombale di un’industria che ha conosciuto lo splendore ed ora è ridotta ad uno scheletro. Scheletri, spodestati dal tetto del mondo e adatti soltanto a riparare qualche poveretto senza una casa. Almeno, una funzione ce l’hanno ancora. Forse non è proprio quella che si immaginava il “funzionalista” Pagano, ma oramai cambia poco. Finchè nessuno troverà il coraggio di fare qualcosa con questi edifici (che, ricordiamolo, sono la prima immagine della città per chi arriva dalla pianura), allora forse è giusto che appartengono a loro, agli homeless, simbolo e specchio di una città che ha conosciuto la ricchezza e che ora, stanca e abbandonata, non riesce più a sollevarsi. Proprio come i senzatetto, proprio come gli stabilimenti dei lanifici Rivetti.

La Nuova Pettinatura per chi arriva a Biella

A questo punto desidero ringraziare l’assessorato alla cultura del comune di Biella, che gentilmente mi ha suggerito i nomi di avvocati, curatori fallimentari, e proprietari degli edifici, insomma di chi avrebbe potuto portarmi dentro alla struttura. Cosa che, ovviamente non è successa (a dirla tutta non abbiamo nemmeno ricevuto risposta).

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

 


[1]La stazione ferroviaria di Biella si trovava in quella che oggi è Via Lamarmora. Durante il fascismo, la stazione venne spostata nella posizione attuale: in periferia, perpendicolarmente a via Roma, evitando così che i treni entrassero in centro città. La nuova collocazione favorì sicuramente i Rivetti, in quanto i binari passavano (e passano tutt’ora) a pochi metri dagli stabili. Addirittura, vennero approntate alcune modifiche strutturali che permettevano, attraverso carroponti e gru, di caricare i prodotti lanieri direttamente sui convogli.

[2]Giuseppe Pagano (1896 – 1945) fu un importantissimo architetto funzionalista italiano. Dopo essere stato per anni membro attivo del regime fascista, divenne partigiano e morì prigioniero nel campo di concentramento di Mauthausen, tre giorni prima che la guerra finisse.

UN BUNKER TRA LE RISAIE

Reportage realizzato da Riccardo e Francesco Poma, testi e fotografie di Riccardo Poma

1

Leggende. Quando ero più piccolo – dovevo avere sei o sette anni – ricordo che qualcuno mi raccontò che, in un boschetto poco lontano da casa mia, meta sicura dei cosiddetti “fungiàt”, c’era un “bunker” della seconda Guerra Mondiale. Qualche tempo fa, più o meno nel periodo in cui ci venne l’idea di creare questo blog, mi ritrovo a chiedere a mio padre – Fungiàt DOC – se sa indicarmi qualche vecchio luogo abbandonato dalle nostre parti. “C’è un bunker nella Baraggia”, mi dice, “ma non mi ricordo dov’è”. Il paese è piccolo, e basta lasciarsi scappare una parola di troppo al bar che tutto diventa di dominio pubblico. Non solo: il piacere della scoperta alberga in ben più anime di quante si creda. E così via, per più di un mese l’argomento più gettonato al bar è proprio il famigerato bunker.

“Devi addentrarti tra i campi di grano”, dice qualcuno. “Ma no”, ribatte un altro, “è in mezzo alle risaie!”. “Figurarsi”, aggiunge il terzo, “non ci sono funghi nelle risaie e nei campi di grano: è in mezzo a un boschetto!”

Parte allora la nostra indagine. Identifichiamo la porzione di territorio in cui “deve” trovarsi la costruzione – l’unico elemento su cui tutti i clienti del bar, agricoltori, girovaghi e cantastorie, si trovano d’accordo – e, attraverso Google Earth, iniziamo a cercare “dall’alto” qualche segno di costruzione. Detto così sembra facile, ma le nostre zone di campagna non possono certo contare su immagini ad alta definizione (se si guarda il Central Park di New York, si riesce a stabilire addirittura di che razza sono i cani a passeggio), e la modalità Street View è soltanto una chimera (del resto, chi ha bisogno di osservare territori in cui nessuno va mai?). Vedo un luogo che potrebbe rispecchiare le caratteristiche di un bunker, almeno per come me lo immagino io: vicino a delle piante, lungo e stretto. Il fatto che a fianco abbia delle risaie non deve ingannare: i campi non c’erano negli anni ’40, era tutta baraggia. Posto ideale per nascondere qualcosa (anche perchè Google Earth non c’era). Stampo la mappa, carico macchina fotografica e cavalletto e partiamo. Giunti sul posto, sui nostri volti appare la prima delusione delle tante che incontreremo durante la nostra ricerca: il luogo visto dal satellite non è altro che un piccolo box di mattoni in cui qualche agricoltore del luogo parcheggia trattori a attrezzi agricoli. Nulla da fare, si torna a  casa.

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Confrontando questa foto con la prima in alto si può notare quanto l’ambiente cambi a seconda della stagione.

Ripartiamo qualche giorno dopo, percorrendo una strada alternativa. Arriviamo vicino ad un altro boschetto, ma ad un certo punto la strada ci è interrotta da un fiumiciattolo. Non ci fidiamo ad attraversare, anche perché non disponiamo di Jeep ma di una normalissima utilitaria. Facciamo qualche passo a piedi, ma nel bosco non riusciamo a scorgere nulla. Seconda delusione, anche se questa volta la sensazione è diversa: ho sentito, per la prima volta, di essere sulla buona strada. Non credo a questo tipo di cose, non ci ho mai creduto. Ma quel bosco mi ha colpito, ho sentito che se c’èra, il bunker doveva essere da quelle parti.

Torniamo a casa, di nuovo davanti al PC. Utilizzando l’applicazione che consente di vedere le foto aeree più vecchie, il boschetto ci appare come era nel 2001. Non una grande differenza, per carità, ma in almeno tre punti scorgiamo qualcosa che ci potrebbe interessare, e ormai ci interessa davvero ogni dettaglio. In un punto si vede, tra il verde degli alberi, una macchia regolare più chiara, che sembra riflettere la luce del sole. In altri due punti, anche se meno chiaramente, notiamo la stessa cosa.

“E’ qui”, penso, “ non può essere che qui”.

Giornata piovosa. Circa una settimana dopo, decidiamo di ripartire. La giornata è piovosa, ma verso le due del pomeriggio le nuvole, pur restando in zona, concedono un po’ di tregua. Da un lato cantiamo vittoria, in quanto la calura di Agosto ci lascia un po’ di tregua (non è molto bello camminare tra le risaie con 35 gradi), dall’altro sappiamo che la nostra ricerca diventa più difficile, in quanto il grigio del cielo rende tutto più sbiadito: ciò che ci interessa si trova probabilmente nella fitta boscaglia, e senza il sole come complice diventa difficile vederlo, anche se si è molto vicini. Si parte.. Prendiamo la nuova mappa – in cui abbiamo evidenziato le tre possibilità – e ci addentriamo nuovamente nella baraggia. Parcheggiamo la macchina nel punto in cui le stradine sterrate portano il più vicino possibile al boschetto – che in realtà è lungo circa un chilometro e, in alcuni punti, spesso 300 metri – e, a piedi, ci addentriamo tra le piante. Dopo circa dieci minuti di cammino, scartiamo la prima ipotesi: secondo la mappa, la prima delle tre zone più chiare dovrebbe trovarsi vicino al sentiero che stiamo percorrendo, ma nonostante un controllo preciso non riusciamo a vedere nulla. Secondo tentativo: ci spostiamo in direzione della macchia più chiara, quella che più di tutte mi sembrava papabile per il bunker. Di nuovo in cammino, ma questa volta non su un sentiero, bensì sulla spalla di una risaia. La prima parte è facilmente praticabile, la seconda diventa un po’ più complicata perché la terra è sovrastata da grossi arbusti (e qui mi vengono in mente tutte quelle persone che mi dicevano “vi conviene andare d’inverno”…). Arriviamo al confine tra il bosco e la risaia.3

Mi addentro sulla linea che separa il verde (delle piante) dal giallo (del riso), e inizio a camminare guardandomi continuamente intorno. Nel bosco si vedono betulle e pioppi, l’erba è alta e tra le file di alberi ci sono spazi pianeggianti: luogo ideale per i funghi, penso, e mi convinco che siamo sulla buona strada. Mi sembra di vedere qualcosa, ma tra il concatenarsi degli arbusti e la vastità del bosco, non riesco a distinguere nulla. Decido di entrare. L’erba mi arriva al petto (io sono alto circa un metro e novanta) e ad ogni passo sento i piedi affondare nella melma. I rovi mi sbattono contro i pantaloni, aggrappandovisi e lacerando alcune parti di tessuto (e, di conseguenza, la pelle delle mie gambe). Non vedo nulla, solo alberi, finché mi imbatto in una distesa più chiara, sabbiosa. La voglia di imprecare – vista anche la mia posizione affatto confortevole – è più forte che mai. Quella macchia più chiara, vista dal satellite, non è altro che una piccola distesa regolare di sabbia. La delusione si fa grande.

Torno indietro, dove mi attende mio fratello.

“Niente?” “Niente”. Ci incamminiamo nuovamente sulla spalla della risaia, convinti che nemmeno questa volta troveremo qualcosa. Il bunker. Un traccia. Qualunque cosa. Niente.

Decidiamo di lasciar perdere la terza macchia, troppo simile alle altre due per essere qualcosa di diverso. Torniamo indietro, in auto, e decidiamo, pur non coltivando più alcuna speranza, di tornare vicino a quel fiumiciattolo che tempo prima non avevamo guadato. Questa volta abbiamo un’auto più alta, e decidiamo di attraversare il rigagnolo. Giunti sull’altra sponda, ci troviamo su una stradina che costeggia il bosco. La percorriamo a passo d’uomo, osservando accuratamente, scendendo quando ci sembra di aver visto qualcosa, ma in breve tempo siamo di nuovo al guado.

“Niente”, dico, “è andata male. Probabilmente non c’è più… Magari l’hanno spianato per fare una risaia, o forse la vegetazione è riuscita a distruggere anche il cemento armato”.

Attraversiamo il fiumiciattolo, e costeggiamo l’ultimo pezzetto di bosco prima di tornare sulla stradina che ci ha portato lì.

“Vai piano”, dice mio fratello. “Tanto non c’è nulla”, rispondo io, sconsolato.

Ma abbiamo fatto trenta, facciamo trent’uno. Lo accontento, più che altro per fargli capire che apprezzo il suo tentativo di risollevarmi dalla delusione. Guardo il boschetto, in cerca di un’ultima traccia che non mi spinga ad abbandonare per sempre questa ricerca.

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Particolare dell’entrata.  I tondini di ferro del cemento armato si confondono con i rami degli alberi.

“Ferma!”, mi dice. Mi volto nella direzione che mi viene indicata col dito. “Lì”, dice, “il rigagnolo fa un giro strano, sembra convogliato dall’uomo”. “Ovvio”, dico io, “in terra di risaie non c’è nulla che non sia convogliato dall’uomo. Ogni corso d’acqua viene deviato per passare vicino alla risaie, che notoriamente non possono vivere senz’acqua”.

“Può darsi”, risponde lui, con gli occhi luccicanti, “ma per me siamo vicini”.

Impossibile, penso. Qui il boschetto sarà largo si e no venti metri, come si può costruire un bunker in una zona così piccola.

Torno a guardare la strada, iniziando ad accelerare per tornare verso casa. Poi, d’un tratto, do un’ultima occhiata verso quell’intricato, infernale boschetto. E finalmente, dopo quasi un mese di ricerche, lo vedo.5

Eccolo. Dando quell’ultima, fulminea occhiata, ho scorto qualcosa che, nei meandri del mio cervello, ha fatto partire un’equazione che si potrebbe riassumere in questo modo: natura = linee irregolari; costruzioni umane = linee regolari; cosa ci fa una linea regolare in mezzo ad un boschetto in cui dovrebbe esserci soltanto natura? Scendo dalla macchina sbraitando come un ossesso.

“Eccolo!”, urlo, “eccolo, eccolo, eccolo!”

“Ma dove?”, urla mio fratello.

“E’ regolare”, dico, “è regolare! Non può essere un albero, non può!”

Mi inchino per avere una buona visuale tra gli arbusti, e mio fratello si avvicina.

E lui è lì.

Abbiamo fatto molte ipotesi, da quando l’abbiamo trovato. Non abbiamo detto a nessuno dove si trova, perché non vogliamo che tutti quelli che ne conoscono l’esistenza (ma che se ne erano dimenticati da anni e non ricordano dove si trovi) lo facciano diventare meta turistica per ragazzini in cerca di avventura o giaciglio misterioso per innamorati in cerca di camporelle selvagge. O forse non l’abbiamo detto a nessuno perché, con un po’ di egoismo, ci sembra ingiusto che qualcuno lo trovi facilmente mentre noi lo abbiamo cercato per più di un mese. Sappiamo certo che non si tratta di una scoperta sensazionale, ma nel nostro piccolo è stato come scoprire un nuovo pianeta, ci siamo sentiti Armstrong e Collins che mettevano piede sulla Luna per la prima volta. Abbiamo fatto ricerche accurate, ma non siamo riusciti a trovare notizie sulla costruzione di quel deposito. Già, deposito, perché quella costruzione non è certo un bunker nel vero senso della parola: non ha feritoie per sparare, e l’entrata – la “botola” – d’ingresso è lunga due metri e larga uno, cosa che ci fa escludere che dentro vi si potessero introdurre armi pesanti. Solo armi di piccolo calibro (pistole e fucili) e persone potevamo avervi libero accesso. La sua posizione e il fatto che sia costruito in cemento armato, comunque, fa escludere che si tratti di una costruzione civile. Fu edificato in quel punto e con quei materiali per almeno due ovvie ragioni: tenerlo nascosto a chiunque non ne conosceva la presenza; ospitare al suo interno materiali – o persone – per proteggerli dagli eventi esterni (bombe, intemperie, ecc). L’ingresso, oggi, è chiuso da un’enorme quantità di terra, probabilmente riversatasi all’interno in quasi settant’anni di assenza umana. Scoprire come fosse all’interno o recuperare vecchi reperti che sicuramente ne svelerebbero l’identità appare oggi, se non impossibile, altamente improbabile: bisognerebbe estrarre centinaia di tonnellate di terra da una botola 2X1, e il comune di Masserano, cui appartiene il boschetto, non ha alcuni interesse in questo momento a spendere soldi in un’opera così monumentale.6

Ipotesi:

È un deposito di armi della Prima Guerra Mondiale. Questa prima ipotesi ci è stata suggerita da alcuni studiosi del luogo, che hanno scoperto attraverso alcune ricerche che nella baraggia, prima del conflitto mondiale, venivano fatte delle manovre militari con lo scopo di “addestrare” i soldati che dovevano partire per il fronte. Di conseguenza, i comandi avrebbero avuto bisogno di depositi ben nascosti per lasciare le armi nei momenti di inattività. Due gli elementi che spingono però a scartare la teoria: innanzitutto, nel 1914 il cemento armato si usava più che altro per costruire lapidi e tubature, e non era ancora impiegato per costruire edifici; altresì, sul soffitto dell’entrata del deposito non si trovano mattoni pieni, bensì tavelle (mattoni forati), introdotte nell’edilizia soltanto in periodi successivi.

È un deposito delle Ferrovie. La vicinanza – relativa – dell’edificio rispetto all’ex Stazione di Masserano ha portato alcuni studiosi a pensare che si tratti di un deposito delle ferrovie statali. In realtà la stazione, costruita da privati negli anni trenta, divenne statale soltanto negli anni ’60, e di conseguenza lo stato, durante la guerra, non avrebbe avuto interesse a preoccuparsi delle sue condizioni. E poi deposito per cosa? Macchinari? La porzione di terreno tra stazione e Bunker, un tempo, era tutta boschiva: come si sarebbero potuti spostare i suddetti macchinari (per la manutenzione, ad esempio) attraverso quel percorso? E, soprattutto, come li avrebbero fatti entrare nel bunker, considerando che la botola d’accesso occupava circa due metri quadrati? Le domande non sono finite:  perché interrare un deposito di attrezzi? Non lo si poteva fare alla luce del sole?

È un bunker della seconda guerra mondiale, costruito dall’esercito italiano. Questa ci sembrava l’ipotesi più realistica, almeno considerando la posizione nascosta dell’edificio, l’impiego del cemento armato e l’esistenza – evidente, considerando che all’interno c’è una botola – di un vano interrato. La mancanza di feritoie per l’artiglieria svela che certamente non fu costruito per azioni di guerra: piuttosto, è probabile che fosse un deposito segreto di armi. Costruito prima della Guerra, non venne poi utilizzato perché la zona baraggiva in cui si trovava era frequentemente occupata dai partigiani, che dominavano il territorio protetti dalle fitte boscaglie. I partigiani, a loro volta, non lo utilizzavano perché l’esercito ne conosceva la collocazione.7

È un deposito della Fornace. Non troppo lontano dal luogo in cui si trova il bunker sorge, ormai abbandonata da anni, l’ex fornace di Masserano. Si dice che durante la Guerra i proprietari della fornace avesse preso accordi con l’esercito per ospitare un piccolo reparto in cui produrre armi di piccolo calibro (pistole e fucili). Se la fornace fosse stata bombardata, qualcuno poteva avere l’ordine di portare più armi possibili all’interno della struttura, situata a circa un chilometro e mezzo di distanza e facilmente raggiungibile attraverso le strade sterrate che, in quei tempi, venivano costruite dai possidenti per raggiungere i propri terreni. Un’altra ipotesi che non potevamo scartare: il fatto che a costruire l’edificio possano essere stati “esperti di edilizia”, svelerebbe il perché delle tavelle, mattoni ancora scarsamente utilizzati dalla maggioranza ma già presenti in qualunque fornace.

È un deposito successivo alle due guerre. Gli abitanti di Castelletto Cervo e Masserano ci raccontano che, negli anni ’60, l’esercito raggiungeva spesso le zone baraggive per svolgere delle esercitazioni con tanto di carri armati e artiglieria pesante. Dunque, l’edificio potrebbe non essere nient’altro che un piccolo deposito che i soldati utilizzavano durante queste manovre. Questa ipotesi, forse la meno poetica, non è comunque da scartare.

Molte ipotesi e idee abbiamo raccolto durante le nostre ricerche – addirittura, qualcuno ci ha detto che potevano essere “chiuse” (anche se il “fiume” che passa vicino alla costruzione è largo un metro e profondo dieci centimetri) o una struttura privata (!) – e, sinceramente, non siamo riusciti a venire a capo di niente.

Fino ad oggi.8

Particolare dell’ingresso sotterraneo. L’alberello cresciuto all’interno fa presupporre che l’intero edificio sia stato riempito di sabbia e terriccio, probabilmente nel periodo in cui la Baraggia fu bonificata per fare spazio alle risaie. 

Il partigiano Dante. Durante il secondo conflitto mondiale, la baraggia fu sicuro nascondiglio di molti plotoni partigiani. La fitta, intricata boscaglia ospitò centinaia di ribelli che, grazie anche al sostegno delle popolazioni limitrofe, potevano sfuggire ai tedeschi e allo stesso tempo controllarne gli spostamenti: la zona baraggiva arrivava fino alla strada – ancora percorribile – che portava da Biella a Vercelli e viceversa, una tratta privilegiata dai nazifascisti che spostavano armi e prigionieri da una “grande città” all’altra. Proprio parlando con uno di questi partigiani, Dante Aglietti, abbiamo scoperto che il bunker si trovava già in quei boschi durante la guerra e che, addirittura, ve ne erano altri cinque, a formare una sorta di “esagono” in mezzo ai boschi che circondava idealmente le Quattro Madame. La testimonianza del partigiano Dante, unita ad alcune ricerche effettuate dal vicesindaco di Castelletto Cervo, ci ha svelato molti misteri riguardanti il bunker. Si tratta di una struttura militare costruita a cavallo delle due guerre, probabilmente intorno al 1935. Il suo scopo era quello di addestrare i giovani militari ad alcune gravi situazioni belliche, come ad esempio il bombardamento aereo. Non a caso a poche centinaia di metri dal bunker sorge la cascina delle Quattro Madame, edificio abbandonato negli anni venti del ‘900 che venne utilizzato come bersaglio – mai colpito (!) – per le manovre dell’aeronautica. I sei bunker dovevano quindi servire per stipare materiale bellico e per ospitare i militari durante le prove di bombardamento. Anche questa teoria non possiede fonti documentate, ma ascoltando diverse testimonianze ci è sembrata la più veritiera.

Noi un bunker l’abbiamo trovato, ora non resta che trovare gli altri cinque.

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