STAZIONI FANTASMA

Testi di Riccardo Poma, fotografie di Andrea Altellini e Riccardo Poma

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MASSERANO (BI). Su La stampa sera del 7 luglio 1983 c’è un articolo dal titolo “L’incredibile stazione fantasma, dove non parte e non arriva nessuno”. La stazione in questione è quella di Masserano, abbandonata a se stessa e cancellata dalle tratte ferroviarie (era sulla Biella– Novara) da almeno 15 anni. Al di là del tono ridanciano e insolente dell’articolo – che sostiene che la stazione si trovi nella “steppa”, che sia circondata da bisce e giganteschi ratti di fogna e che a Masserano si fanno le cose “alla carlona” – la posizione di questa stazione, prima privata e poi nazionale (dal 1960), è quantomeno surreale: l’edificio si trova infatti a ben 10 km dal centro abitato di Masserano, è costruita sul suolo di un altro comune (Castelletto Cervo) e, per giunta, in mezzo alle risaie. L’abitazione più vicina è a circa 3 km, e l’unico modo per arrivarvi è farsi a piedi la strada provinciale. Oppure passare dalla baraggia, come ci hanno raccontato i castellettesi più anziani, che sfruttavano la piccola stazione per dirigersi a scuola a Biella (si parla degli anni ’40). Alla luce di questo strambo posizionamento, non è difficile domandarsi come sia possibile che la stazione sia stata ben presto abbandonata: è troppo lontana dai centri abitati e, di conseguenza, i pendolari preferiscono dirigersi alla stazione di Cossato, che, paradossalmente, è più vicina al centro abitato di Masserano rispetto a quella di Masserano. La usavano i castellettesi, certo, ma il fatto che per raggiungerla si dovessero fare tutti quei km presto stancò anche loro. Oggi l’edificio è quasi totalmente divorato dalla fauna, invisibile dalla provinciale e distinguibile velocemente (ma si deve prestare molta attenzione) se si è seduti sul treno.

A causa del ritrovamento di alcuni murales e di parecchie siringhe, all’inizio degli anni ’90 gli ingressi della stazione furono letteralmente murati. La cosa incredibile, surreale, è che nessuno portò fuori il materiale ancora presente dentro la stazione, e così non fu raro, negli anni successivi alla muratura, che passando davanti alla stazione si vedessero documenti cartacei volare fuori dalle finestre, trasportati dal vento. Nel 2007 gli amministratori locali, stanchi dei continui incendi dolosi di rifiuti nei pressi della stazione (e, forse, anche del fatto che il luogo stesse diventando un luogo d’appuntamenti hard) hanno chiuso il viale alberato che portava all’edificio con dei blocchi di cemento armato. L’unico modo per raggiungere la stazione rimane la Baraggia, ma non è facile trovare la strada giusta.

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BURONZO e CARISIO (VC). Quella di Masserano non è l’unica stazione abbandonata della zona. Nei piccoli centri biellesi e vercellesi se ne trovano molte; abbandoni non tanto dettati dall’improponibile posizione, come accadeva con la stazione di Masserano, quanto per lo sviluppo esponenziale del trasporto privato su gomma e per la soppressione delle linee di interesse. Recentemente, non senza legittime polemiche, è stata chiusa la linea  Santhià – Arona. Molte stazioni della tratta sono state dunque abbandonate a se stesse, altre erano in disuso da parecchio tempo.3

Come quelle di Buronzo e Carisio, entrambe sulla tratta soppressa, entrambe abbandonate da una quindicina di anni. Quella di Buronzo porta con se uno strambo paradosso: nel 2012, nonostante l’abbandono, è stata ritinteggiata e messa a nuovo (anche se gli ingressi restano murati). L’unico motivo plausibile è che, considerata la sua posizione (svetta a sinistra, su una collinetta, arrivando da Vercelli), essa sia stata sistemata per evitare che i viaggiatori ricevessero, come benvenuto dal comune di Buronzo, un casolare sfatto e cadente.4

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

LO SCHELETRO CHE GUARDA LA VALLE

Testi di Riccardo Poma, fotografie di Marco Pignolo e Riccardo Poma1

BIELLA. La conca della valle di Oropa (Biella) ospita uno dei santuari mariani più importanti delle alpi. Nei pressi del complesso sacro fu edificato, nel 1856, un enorme cascinale che, ampliato e ristrutturato, divenne il primo stabilimento idroterapico d’Italia, diretto dal dottor Guelpa prima e dal dottor Mazzucchetti poi. La posizione dell’edificio, circondato e quindi riparato dalla montagna, garantiva una temperatura costante (intorno ai 23° C) e piacevole. Lo stabilimento poteva ospitare fino a 400 persone, ed era dotato, oltre che di un bellissimo giardino esterno, di sala da biliardo, sala da lettura, ristorante. Per sfarzo e qualità dei servizi offerti (vi erano ben cinque sorgenti naturali e un’assistenza clinico- terapica d’avanguardia), Oropa Bagni divenne ben presto un punto fisso per le vacanze di molti aristocratici, biellesi e non: vi soggiornarono, tra gli altri, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Guglielmo Marconi, Eleonora Duse, esponenti della dinastia dei Savoia.

Lo stabilimento nel 1913

Lo stabilimento in una cartolina del 1913

Nel 1910, con la crisi dell’aristocrazia e della medicina termale, lo stabilimento fu venduto alla Curia di Alessandria che lo utilizzò come colonia estiva. Abbandonato negli anni ’20, fu acquistato nel 1987 dall’azienda acquifera biellese Lauretana, che affermò di voler riaprire le sorgenti chiuse e di riqualificare l’ambiente.

2013. Oggi.

3La strada che collega Biella al santuario di Oropa si snoda tra le balze della valle, e somiglia ad una qualunque tortuosa strada di montagna del nord Italia. In realtà, questa piccola strada porta con se una serie infinita di testimonianze del passato, del “glorioso” passato biellese. Le tracce più evidenti di questo passato sono quelle del suggestivo tram che collegò Biella e Oropa dal 1911 al 1958: dalla strada si possono ancora vedere ponti, resti (mutilati) della linea aerea, terrazzamenti e trincee del sedime tramviario. Con un po’ di sforzo (fisico) si può addirittura contemplare il bellissimo girone elicoidale costruito sopra la frazione del Favaro, vero e proprio capolavoro ingegneristico che offriva un panorama unico, oggi solo parzialmente contemplabile. Oltre alle tracce del trenino biellese [di cui parleremo più avanti], vi è un’altra costruzione “umana” che rapisce l’occhio dei più attenti. Già, perché non è così facile vederla, specialmente nel periodo estivo in cui la flora tende a riprendersi ciò che le appartiene. Superato il Favaro, all’altezza di quel capolavoro naturale che è il “Piano dei sette faggi”, i più attenti possono notare, in alto a sinistra, una gigantesca costruzione bianca, piena di finestre, misteriosamente sinistra nel suo essere priva di vita. È un contrasto emblematico, quello tra il bianco dei muri e il verde acceso dei boschi che li circondano.

1Quell’enorme edificio altro non è che lo stabilimento idroterapico di Oropa Bagni, da anni lasciato a se stesso e pericolosamente incline a crolli e devastazioni.

5Arrivare davanti allo stabilimento non è difficile: poco prima di arrivare al santuario, c’è una piccola stradina sterrata sulla destra (percorribile solo a piedi, in quanto dopo poche centinaia di metri vi è un primo sbarramento), una stradina un tempo percorsa da signorili carrozze ed eleganti signori in doppiopetto. I primi problemi si presentano giunti nei pressi dell’edificio.

Un cumulo di macerie.

Cos’è accaduto?

Verso la metà degli anni ’80, lo stabilimento subì un devastante incendio che ne minò pericolosamente il “braccio est”, quello che si trovava davanti arrivando dalla suddetta stradina. All’incendio, sicuramente doloso, fece seguito il clamoroso ritrovamento di alcuni oggetti rubati da un cimitero vicino, accompagnati da scritte “sataniche” sui muri e resti di poveri animali sgozzati. Subito l’alone romantico di Oropa Bagni lasciò il posto alla paura: per i biellesi, quel luogo un tempo fastoso e motivo di vanto divenne un postaccio da evitare, una sorta di santuario alla rovescia in cui si venera il diavolo invece che la madonna. Ovviamente, come spesso accade in questi casi, non avvenne nessun altro episodio del genere, ma Oropa bagni non riuscì mai più a cancellarsi la nomea di “posto maledetto”. Provate a scrivere su Google “Oropa Bagni”, e guardate qual è il primo suggerimento della barra di ricerca.

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DSC_6936Dopo l’incendio, tuttavia, lo stabilimento divenne uno scheletro di mattoni decisamente pericoloso. Certo, vi sono parecchi cartelli e sbarramenti a vietarne l’avvicinamento pedonale, ma l’edificio è comunque molto vicino ai sentieri boschivi della zona, e nei suoi pressi vi è una parete di roccia da arrampicata. Dunque, per evitare di svegliarsi una notte sentendo un boato, il sindaco di Biella e le autorità competenti decisero di abbattere l’ala dell’edificio in cui, vent’anni prima, era scoppiato l’incendio. L’ala più indebolita, quella che maggiormente rischiava di crollare. Nel 2011, quell’ala sparì per sempre. Le tre foto sopra restano tra le poche testimonianze della sua esistenza. Sotto, ciò che ne resta oggi.

Ecco perché, oggi, arrivando ad Oropa Bagni, vi trovate davanti un cumulo di macerie. Ma se avrete la voglia (e il coraggio) di scavalcarle – o, forse è meglio, girarvi attorno – davanti a voi apparirà lo scheletro di quello che un tempo era un motivo di vanto per il biellese e che oggi, purtroppo, è solamente un rudere silenzioso. Che, prima o poi, crollerà totalmente e sarà inghiottito dalle piante.

Dentro Oropa Bagni

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10Nonostante il secolo di abbandono, si possono ancora notare gli splendidi particolari architettonici della struttura: arcate, affreschi, decorazioni di ogni tipo. Non è difficile capire perchè l’aristocrazia biellese (e non solo) scegliesse questo luogo per trascorrere il proprio tempo libero. Si notano, purtroppo, anche le scritte dei cosiddetti “satanisti” o di semplici “graffitari”, atti di vandalismo e danni dettati dall’abbandono.

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Grazie a Marco Pignolo per le foto e la disponibilità.

http://www.pigno.it/

http://www.ricordinellapolvere.it/

 Tutte le foto sono state scattate da Marco Pignolo, eccetto la prima.

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OLTRE LA PISTA

Testi e foto di Riccardo Poma

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A Balocco (VC) c’è una pista di collaudo FIAT (un tempo Alfa Romeo) tra le più importanti d’Italia. Questa cascina si trova vicino al curvone della pista. Una parte del tetto è stata recentemente restaurata, ma presto gli abitanti l’hanno abbandonata nuovamente, e in pochi anni il livello di degrado è salito a livelli vertiginosi. La cascina Bella Luigina (“La bela Luisin-a”), poco distante, ebbe la fortuna di essere inserita nei terreni dell’autodromo e, quindi, di essere restaurata come sede di uffici e garage. Alla “Graziana”, questo il nome di questa cascina, è andata male per una manciata di metri.2

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LE QUATTRO MADAME

Testi e fotografie di Riccardo Poma

[Cliccando sulle foto è possibile vederle in alta qualità]

Questo casolare dimenticato, costruito in mezzo alla distesa di risaie del basso biellese, apparteneva probabilmente a ricchi possidenti della zona, come sottolinea la qualità architettonica di alcuni particolari (come le finestre circolari). Venne battezzata “I quat madami”, “le quattro signore”, in quanto nei suoi pressi crescevano rigogliose quattro querce secolari, abbattute con l’avvento della coltura da riso. Gli unici dati certi sulla cascina riguardano il suo periodo di abbandono: il fatto che negli anni ’30 la nascente Aeronautica Militare compiesse manovre di addestramento nei boschi utilizzando la cascina come “bersaglio di prova”, suggerisce che essa fu abbandonata intorno agli anni ’20 del novecento, se non prima.1

Gli anziani di Castelletto Cervo raccontano divertiti che, nonostante i continui bombardamenti, nessun aereo riuscì mai a centrare il bersaglio; è proprio grazie a questi inesperti piloti che possiamo ammirare ancora oggi una delle costruzioni più antiche (e abbandonate da più tempo) di tutta la zona. Anche se le quattro signore sono state impietosamente divelte, l’area circostante porta ancora il nome di “Regione Quattro Madame”.

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TERRA ROSSA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

Fondata nel 1884, questa fornace fu una delle aziende più importanti del territorio biellese. Negli anni ’50 venne costruito il nuovo stabilimento e quello vecchio, che vedete in queste foto, fu letteralmente abbandonato a se stesso. Alto 15 metri, lungo 170 e largo 70, per un totale di circa 12.000 m², l’edificio e il suo enorme piazzale sono raggiungibili soltanto passando attraverso le risaie circostanti.

La terra intorno al gigantesco edificio è di un arancione irreale, provocato dalla sabbia che fuoriusciva dai muri durante la lavorazione dei mattoni.

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Quante case si possono costruire?

Entrando nelle viscere della fabbrica si scopre come sia possibile che, nonostante l’azienda abbia chiuso da parecchi decenni,  la terra intorno continui a conservarsi rossastra: lo stabile è ancora pieno di tonnellate di mattoni (2) che, a causa degli agenti atmosferici e della mancanza di manutenzione, disperdono tutt’ora la loro polvere al vento. In basso si vedono ancora i binari utilizzati per spostare i materiali da dentro a fuori la fabbrica e viceversa. Il telecomando del carroponte è ancora appeso al soffitto (3): sembra che gli operai siano usciti di corsa, in fretta e furia; pare che la fabbrica sia stata abbandonata da un giorno all’altro, come dimostra anche il gigantesco forno, lasciato aperto (4).

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3 4Squarci

Vista attraverso la porta di uno dei due corpi laterali (5). Le piante – cresciute attraverso il cemento – toccano ormai il soffitto, e sono tra le responsabili maggiori del disfacimento del tetto. Uno dei portelloni ha ceduto sotto il peso di una montagna di mattoni, che “ha spinto” dall’interno (6), un altro – quello in cui entravano i binari – è in condizioni critiche ed è ormai totalmente uscito dalle sue guide. Dai finestroni del magazzino si scorgono delle luci che sembrano quelle di giganteschi lampadari: si tratta invece della luce del Sole, che filtra dai moltissimi squarci presenti nel tetto (7).

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Vietato l’ingresso

La vista dal cancello principale (8) rende l’idea della grandezza del cortile circostante, un tempo colmo di camion, bancali di mattoni, operai. Oggi è solo un’immensa e desolata distesa di cemento che ospita arbusti e piccole piante. Un cartello dice “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”. Alle sue spalle, lo scheletro dell’enorme edificio giace abbandonato da decenni. Dove c’era rumore continuo, ora c’è silenzio surreale; dove c’erano centinaia di operai, oggi c’è un deserto di cemento e mattoni; dove c’era “lavoro”, c’è solamente un perimetro di mura destinate, prima o poi, ad essere totalmente divorate dalla vegetazione.

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Immagine satellitare

[i segnaposto indicano le posizioni da cui sono state scattate le fotografie]

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