C’ERA UNA VOLTA UNA FATTORIA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

Un’altra cascina abbandonata, un’altra cascina costruita in mezzo alle risaie e, ora, lasciata a se stessa. Cenni storici se ne trovano pochi; sappiamo con certezza che la cascina appartenne, nell’arco del ‘900, ad un marchese torinese, che la acquisto per permettere ai contadini dipendenti di lavorare i suoi sterminati campi. Per quanto riguarda la data di abbandono, le cose si complicano ulteriormente. La parte abitabile (fig. 6, 12, 13, 14), quella in cui si distinguono chiaramente i diversi appartamenti, è probabilmente quella abbandonata da più tempo, almeno una ventina d’anni. La costruzione posta a sud (che contiene dei garage, delle “travà”, dei magazzini, fig. 7, 8, 9, 10, 11), invece, è stata utilizzata fino a tempi più recenti, come dimostrano un calendario (il foglio presente si riferisce a gennaio 2006) e altri piccoli particolari. È probabile che, pur disabitata, la cascina fosse ancora utilizzata come deposito o come officina. La tenuta ospitava uno spaziosissimo cortile (fig. 3, 6, 12, 14), ormai divorato dalle erbacce, e una costruzione adibita a essiccatoio per riso e grano con tanto di aia (fig. 1).

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

LA CITTA’ (FANTASMA) DELLA LANA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

1

BIELLA. Su un blog che parla anche (e soprattutto) di edifici presenti sul territorio biellese, non poteva mancare un post che raccontasse da vicino la “Biella tessile”, una sorta di civiltà ormai estinta e decaduta (i grandi brand che ancora si salvano appartengono quasi tutti a stranieri) sulla quale si sviluppavano i ritmi e le abitudini di un’intera città. L’industria tessile biellese conobbe un periodo di grande prosperità che attraversò tutto il ‘900, salvo poi spegnersi agli albori del terzo millennio. Biella non era solo una capitale del tessile italiano: il suo valore industriale era riconosciuto anche a livello internazionale.

2

La maggior parte di questi lanifici (come il lanificio Cerruti, tra i pochi ancora particolarmente attivi) venne edificata sulle sponde del cervo, fonte inesauribile di acqua da utilizzare per le operazioni più disparate. Tolte le implicazioni legate all’inquinamento, che sarebbero sorte soltanto molto tempo dopo (molte ditte si liberavano degli scarti lasciandoli “cadere” lungo il torrente), questa ubicazione si dimostrò vincente, e garantì ai lanifici biellesi una prosperità inaspettata.

Al giorno d’oggi, vi sono almeno due grossi complessi tessili abbandonati nella zona di Biella città. Il primo si trova sul Cervo, poco prima del ponte di Chiavazza, e negli ultimi anni è stato ristrutturato dal ministero dei beni culturali. Addirittura, dentro uno di questi edifici riportati alla vita (per la precisione la manifattura Trombetta), è stata aperta cittadellarte, una fondazione museale voluta e gestita dall’artista Michelangelo Pistoletto.

Ai lanifici Rivetti, invece, non è andata così bene.

3

Situati poco più giù rispetto ai lanifici Trombetta – dopo il ponte di Chiavazza e prima della stazione ferroviaria, ma sempre lungo il corso del Cervo – i complessi del lanificio furono edificati intorno al 1879, come sedi distaccate dello stabilimento principale di Mosso. Giuseppe Rivetti, fondatore dell’impero, comprese subito l’importanza di quella locazione: a ridosso di un torrente, vicino ad una stazione ferroviaria[1], in una posizione periferica che permetteva di ampliare il complesso, ben visibile da chiunque giungesse a Biella dalla pianura. Per queste ragioni, lo stabilimento biellese divenne presto il cuore pulsante dell’azienda, e dal 1900 circa iniziò a specializzarsi nella produzione di (richiestissimi) cascami di rayon. Il complesso si estendeva su una superficie di 47mila mq, per una valore attuale di immobili e terreni vicino ai 4 milioni di euro.

4Si tratta di due foto scattate dal ponte sul Cervo. Unite, mostrano i lanifici Rivetti in tutta la loro lunghezza [clicca sulla foto per vederla in HD]

L’attuale via Repubblica ospitava l’ingresso dei lanifici, che si estendevano a perdita d’occhio fino a metà dell’odierna via Carso. Lo spiazzo conosciuto come il “parcheggione” e la strada che collega via Cernaia a via Carso non esistevano: al loro posto c’erano gli edifici del lanificio, “uniti”, che solo nel 1987 furono abbattuti per modificare la viabilità del quartiere. Osservando l’ultima parte del complesso di via Carso ben si può comprendere questa “rivoluzione spaziale”. Sulla parete che da verso la strada, infatti, sono ancora ben visibili i segni dell’abbattimento/ smembramento di cui fu vittima l’edificio: la parete mostra le tracce di un altro stabile appoggiato su di essa, così come le travi in ferro tagliate di netto suggeriscono la presenza di una continuazione dell’edificio.

“Il complesso dei lanifici Rivetti si presentava come una vera e propria città industriale adiacente alla città; edifici pluriplano adibiti agli uffici e ai servizi erano accostati a unità produttive a sviluppo orizzontale” (Biella e Provincia, Touring Editore, 2012, p.51)

Tra il 1939 e il 1941 i Rivetti affidarono all’architetto Giuseppe Pagano l’ampliamento del lanificio. Pagano, la cui storia merita un approfondimento particolare[2], concepì uno stabile modernissimo – in contrasto con quello ottocentesco situato a Nord – che rimane anche uno degli esempi più significativi di quell’architettura razionalista tanto ammirata dal Duce: nessun orpello estetico o cromatico, nemmeno i più elementari; impronta visiva tanto imponente quanto “ordinata”; massima importanza alla “funzionalità” e minima importanza all’estetica. L’edificio si compone di un grosso corpo centrale parallelo alla strada, costruito su cinque piani in cui la lavorazione si svolgeva, contrariamente a quanto avveniva nelle fabbriche ottocentesche, dall’alto verso il basso. Pagano calcolò che sarebbe stato meno dispendioso trasportare in alto le materie prime, lavorarle lungo i piani e infine farle scendere al piano terra come prodotto finito, piuttosto che farle partire dal basso per poi dover nuovamente “far scendere” il lavorato. Perpendicolarmente all’edificio centrale, vennero costruiti due corpi di fabbrica adiacenti che culminavano con due altissime torri rettangolari. Tra le innovazioni architettoniche presenti nell’edificio, si fa notare la copertura “a shed” del troncone Sud, una sorta di soffitto in vetro che permetteva miglior illuminazione e maggior circolazione dell’aria. Dopo alcuni lavori di ampliamento, svolti intorno al 1953, il nuovo edificio venne ceduto dai Rivetti (che vendettero le azioni e, di fatto, condannarono a morte l’azienda) e divenne una pettinatura autonoma, chiamata appunto Nuova pettinature riunite.

Oggi

Non sappiamo con certezza in che anno gli stabilimenti chiusero i battenti. Sicuramente, a metà degli anni ’90, alcuni padiglioni delle Pettinature Riunite erano ancora aperti, nonostante lavorassero ad un regime piuttosto ridotto. Oggi, invece, entrambi gli stabili (sia quello ottocentesco che quello progettato da Pagano), versano in pessime condizioni. Sono ormai due stabili distinti, in quanto tra loro è stata costruita la moderna sede della Biverbanca. L’entrata del lanificio, sita in via Repubblica, è stata restaurata e il palazzo alle sue spalle è stato ribattezzato Palazzo Rivetti. Per quanto riguarda i due grossi stabili di via Carso, invece, il degrado è oramai totale e selvaggio.

Torre Nord

Entrare dentro lo stabilimento ottocentesco è piuttosto facile: c’è un buco nella recinzione che pare fatto apposta per far passare un visitatore alla volta. L’importante è avere lo stomaco forte: dopo circa una decina di metri tra erbacce, alberelli, siringhe, vetri rotti, si arriva nel piazzale della fabbrica; il giro turistico può partire, ma state attenti perché lo stabilimento è diventato una casa per gli homeless della zona, e non tutti – ad esempio quelli che ho trovato io – sono felici di farvi fotografare il loro giaciglio. Per quanto riguarda invece lo stabilimento moderno, quello progettato da Pagano, l’entrata è oramai impossibile. Ci sono lucchetti e porte chiuse ovunque, e l’unico muretto che permette di scavalcare ed entrare (ammesso poi che si riesca ad uscire una volta dall’altra parte) si affaccia su una banca sorvegliata da decine di telecamere.

Geometrie

Enormi, freddi, divorati dalle piante, silenziosi (apparentemente), questi due enormi edifici sono la testimonianza diretta della fine di una civiltà, la pietra tombale di un’industria che ha conosciuto lo splendore ed ora è ridotta ad uno scheletro. Scheletri, spodestati dal tetto del mondo e adatti soltanto a riparare qualche poveretto senza una casa. Almeno, una funzione ce l’hanno ancora. Forse non è proprio quella che si immaginava il “funzionalista” Pagano, ma oramai cambia poco. Finchè nessuno troverà il coraggio di fare qualcosa con questi edifici (che, ricordiamolo, sono la prima immagine della città per chi arriva dalla pianura), allora forse è giusto che appartengono a loro, agli homeless, simbolo e specchio di una città che ha conosciuto la ricchezza e che ora, stanca e abbandonata, non riesce più a sollevarsi. Proprio come i senzatetto, proprio come gli stabilimenti dei lanifici Rivetti.

La Nuova Pettinatura per chi arriva a Biella

A questo punto desidero ringraziare l’assessorato alla cultura del comune di Biella, che gentilmente mi ha suggerito i nomi di avvocati, curatori fallimentari, e proprietari degli edifici, insomma di chi avrebbe potuto portarmi dentro alla struttura. Cosa che, ovviamente non è successa (a dirla tutta non abbiamo nemmeno ricevuto risposta).

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

 


[1]La stazione ferroviaria di Biella si trovava in quella che oggi è Via Lamarmora. Durante il fascismo, la stazione venne spostata nella posizione attuale: in periferia, perpendicolarmente a via Roma, evitando così che i treni entrassero in centro città. La nuova collocazione favorì sicuramente i Rivetti, in quanto i binari passavano (e passano tutt’ora) a pochi metri dagli stabili. Addirittura, vennero approntate alcune modifiche strutturali che permettevano, attraverso carroponti e gru, di caricare i prodotti lanieri direttamente sui convogli.

[2]Giuseppe Pagano (1896 – 1945) fu un importantissimo architetto funzionalista italiano. Dopo essere stato per anni membro attivo del regime fascista, divenne partigiano e morì prigioniero nel campo di concentramento di Mauthausen, tre giorni prima che la guerra finisse.

LA VILLA DEL CONTE E ALTRE STORIE

Testi e fotografie di Riccardo Poma

1

Torrione (VC). “Ultimo” pezzettino di vercellese (cinquanta metri e ci si ritrova in provincia di Alessandria), la piccolissima frazione di Torrione, comune di Costanzana, si trova a meno di tre km da Saletta e a circa venti da Lucedio, entrambi luoghi “magici” già affrontati su questo blog. Costruita intorno ad un castello, unico edificio ristrutturato e abitato, è ormai lasciata a se stessa nonostante alcuni edifici di grande interesse: la chiesa, la cui facciata presenta statue e decorazioni di livello; la piccola, pittoresca scuola elementare; un grosso edificio adiacente al complesso sacro; un piccola cappella decorata; una signorile tenuta, appartenuta probabilmente al nobile del luogo, colui che edificò anche il castello. Facilmente visitabile – la strada la attraversa dall’inizio alla fine – la frazione dimenticata di Torrione è un’affascinante tappa sia per i cercatori di luoghi disabitati che per gli studiosi d’arte del territorio.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci

A DAY IN FOUNDRY

Testi e fotografie di Riccardo Poma

DSC_0288

Abbiamo aperto questo blog con lo scopo di raccogliere il maggior numero possibile di fotografie inerenti ai luoghi abbandonati presenti sul nostro territorio (e non solo), e non smetteremo certo ora di farlo. Sarebbe ingiusto nei confronti di chi segue il blog perché condivide con noi questa passione. Recentemente, però, ho passato una mattinata in una fonderia molto grande del biellese (forse “la più grande”) durante un giorno di “fusione”, e credo che queste foto, pur distanti dalle altre in quanto vi appare l’uomo e non rispecchiano il concetto di “abbandono”, possano tranquillamente apparire su questo blog. In uno degli ultimi post abbiamo parlato della FOR, grossa fonderia abbandonata costruita secoli fa sulle sponde del Cervo. In quel post vi mostravamo una fonderia in disuso, ora, perché no, ve ne mostriamo una che lavora a pieno regime. Fino a questo momento vi abbiamo parlato della – scusate il termine forte – “morte degli edifici”; è giusto, ogni tanto, anche parlare della loro vita. Perché ciò che vedrete in questo post non è poi così lontano da ciò che, cinquant’anni fa, vedevano gli operai della FOR. È una ruota che gira. Da una parte il fuoco si spegne, dall’altra si accende e brucia di nuovo. Che è poi un’ennesima, riuscita metafora della vita.

[Cliccando su una foto parte lo slide show]

Desidero ringraziare particolarmente le Fonderie Zerbetto per avermi permesso di fare queste splendide fotografie, e ringrazio soprattutto tutti gli operai, quelli che vi appaiono e quelli che non si vedono perché impegnati in altri lavori.

Infine, ringrazio mio nonno per aver trasmesso a mio padre la passione per questo lavoro. E ringrazio ovviamente mio padre, che mi ha aperto la porta della fonderia in cui lavora e mi ha permesso di costruire un lavoro così bello. È sua la mano guantata che spinge “l’anima” dentro la staffa, ed è a lui che è dedicata quest’opera.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2014]

TERRA ROSSA parte due – DETTAGLI

Testi e fotografie di Riccardo Poma

Per TERRA ROSSA parte uno cliccare QUI.

1

Siamo tornati alla suggestiva ex fornace di Terra Rossa, primo edificio abbandonato che abbiamo fotografato nonché oggetto del primo post apparso su vuotiaperdere. Ci siamo tornati con un diverso obiettivo, inteso nelle ambedue concezioni del termine: con l’o(b)biettivo di catturare alcuni particolari che ci erano sfuggiti e con un nuovo obiettivo fotografico dotato di uno zoom più lungo che ci facesse arrivare con semplicità a quegli stessi particolari. Ci siamo soffermati sui quadri elettrici, sui lampadari, sui manometri, sulle ventole di aerazione. Sulle evocative geometrie date dalle intelaiature ormai scarne dei tetti e dal contrasto tra la verticalità dei finestroni e l’orizzontalità di travi e muri, sull’affascinante prospettiva che si crea costeggiando il lunghissimo forno (una prospettiva che dona alla fabbrica l’aspetto di una “cattedrale del mattone”).

2

In mezzo a questo santuario delle cose perdute, a questo monumento dell’abbandono selvaggio, ancora svettano montagne di gialli mattoni pieni e minacciosi lastroni di eternit. Ritrovando questi particolari, si è accentuata in queste nuove immagini l’idea – già balenata nei nostri primi viaggi – di un abbandono rapido e selvaggio. Sembra che, da un minuto all’altro, qualcuno abbia detto agli operai di prendere i propri effetti e fuggire, lasciando tutto com’era. Lasciando lì quelle altissime montagne di mattoni, lasciando aperta la porta del forno, lasciando gli interruttori su “acceso” mentre qualcuno, dall’alto, staccava direttamente la corrente elettrica. Quello che più ci piace di questo enorme luogo abbandonato (lungo 170 metri, alto 15 e largo 70) forse è proprio questo: l’impressione, più che di un abbandono, di una fuga.

[Cliccando su una foto si fa partire lo SLIDE SHOW]

È raro trovare posti abbandonati in questo stato: solitamente, coloro che lasciano un edificio con la convinzione di non tornarvi mai più prima “mettono in ordine”. È un paradosso, ma capita sempre. Si chiudono le porte, si fanno sparire le merci prodotte, si vendono i macchinari ancora utilizzabili. Alla fornace questo non è mai accaduto. Tutto è ancora lì, fermo e silenzioso ma ancora perfettamente “composto”, come se da un giorno all’altro qualcuno potesse riattivare la corrente, spazzare via quei mattoni ammuffiti, aggiustare i vetri alle finestre e ricominciare a cuocere l’argilla.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, possono essere riprodotte soltanto citandone il nome. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci

FUOCO SULL’ ACQUA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

1
BIELLA. La FOR (Fonderie Officine Riunite) fu, tra gli anni ’30 e gli anni ’90, una delle più importanti fonderie del territorio. Tra tutte le fabbriche biellesi che costeggiano il corso del torrente Cervo (quasi tutte oramai tristemente abbandonate), è l’unica fonderia: tutte le altre erano aziende che lavoravano nel tessile. Difficile comprendere il perché di questa strana location. Probabilmente, prima di essere convertita in fonderia, anche la FOR era una fabbrica tessile. Ma non è solo l’unica fonderia adagiata sul Cervo: è anche una delle poche fonderie abbandonate rintracciabili sul territorio. L’industria metalmeccanica non ha mai avuto grandi stabilimenti nel biellese, ma quei pochi sono attivi ancora oggi. La FOR, col suo immenso salone ormai divorato dal verde e le sue molteplici vetrate in decadenza, resta una delle fabbriche più caratteristiche del biellese, se non altro per la sua “unicità”.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

IL PAESE FANTASMA DI LERI

Testi e fotografie di Riccardo Poma

[Cliccando sulle immagini è possibile vederle in HD]

DSC_0476

Ho sempre visto la cittadina di Pryp’jat’ come una sorta di El Dorado per tutti coloro che, come noi, amano esplorare e fotografare ogni sorta di luogo abbandonato presente sul pianeta. Lo scenario che ci si ritrova davanti addentrandosi nella “cittadina” (tra virgolette, considerando che contava 47mila abitanti), completamente disabitata dal 1986, anno del disastro nucleare che colpì la vicina Chernobyl, è uno scenario assolutamente (e tristemente) unico al mondo: un’intera città, ancora in piedi, con tutte le case, le piazze, le strade, al loro posto, piscine olimpioniche, luna park, scuole, fabbriche, tutto totalmente vuoto, silenzioso, privo di qualsiasi presenza umana. Pryp’jat’, per dirla con un termine rubato a cinema e letteratura, è l’unico scenario post-apocalittico “reale” che esista al mondo.

DSC_0432

Questo breve excursus non serve tanto per creare paragoni azzardati (e forse un po’ troppo pretestuosi), quanto per descrivere le sensazioni che ci hanno attraversato arrivando a Leri Cavour, piccola frazione disabitata appartenente al comune di Trino (Vercelli), sul cui territorio sorgono le imponenti torri della centrale termoelettrica Galileo Ferraris (si trovano a poco più di duecento metri dal centro del paese) e, poco distante, l’ex centrale nucleare Enrico Fermi. Ora, razionalmente sappiamo bene che quelle torri sono termoelettriche (anche se il progetto originario, fatto prima del referendum sul nucleare del 1987, prevedeva che fossero un’altra centrale nucleare), che la centrale Enrico Fermi è ormai “bonificata” e che non è mai avvenuto un incidente durante i suoi anni di attività, ma a livello d’impatto visivo – siamo assai bravi nel suggestionarci da soli – la piccola, sperduta Leri non ha potuto che riportarci alla mente la cittadina di Pryp’jat’.

Cenni storici. Non si conosce esattamente il periodo in cui fu costruita la piccola frazione di Leri: i primi dati certi rivelano che intorno al XI secolo fu rilevata dai monaci cistercensi – gli stessi di Lucedio, affrontato in un post precedente – e che furono gli stessi religiosi ad incaricarsi della bonifica dei terreni e delle prime coltivazioni a rotazione (XVIII secolo). Il paese ospitava un’importante grangia[1], che comprendeva anche un centro fortificato di cui oggi, tristemente, non resta alcuna traccia. Leggendo attentamente l’insegna che appare sul portone della chiesa, si apprende che il piccolo paese divenne parrocchia verso la fine del XVI secolo.

DSC_0355

Nel XIX secolo il piccolo possedimento passò nientemeno che a Napoleone Bonaparte il quale, con un decreto datato 1807, lo vendette al cognato Camillo Borghese a compenso parziale per la cessione della galleria omonima allo stato francese. Nel 1822 la proprietà passo a Michele Benso di Cavour che, nel 1835, ne affidò la gestione al figlio Camillo. Insieme ad un gruppo di nobili, Cavour gestì egregiamente la piccola frazione riprogettando i sistemi idrici, acquistando attrezzi agricoli all’avanguardia, rimodernando il paesino a seconda delle esigenze (c’erano molti lavoratori stagionali, e quindi fu necessario edificare mense e dormitori) e testando redditizi nuovi tipi di coltura che avrebbe impiegato su larga scala in tutto il Piemonte. Affezionato a quelle terre, il conte amava trascorrervi lunghi periodi di villeggiatura, tanto che fece affrescare e ristrutturare la sua tenuta fino a portarla allo splendore che ancora oggi, parzialmente, possiamo ammirare.

L’abbandono. Non possiamo dire con certezza fino a che anno Leri fu una frazione florida e produttiva; tuttavia, sappiamo con certezza che nel 1961 era ancora abitata (sulla scuola, unico edificio “moderno” del complesso, una targa ricorda il centenario dell’unità d’Italia), e che negli anni ’80 ospitò, in piccoli prefabbricati ora smantellati, alcuni operai Enel di stanza alla centrale Ferraris. Di certo gli operai non videro mai anima viva, e questo fa presupporre che Leri fu abbandonata a cavallo degli anni ’70. I motivi dell’abbandono furono essenzialmente due:

1)       Lo sviluppo di colture intensive che resero la grangia e, più in generale, gli strumenti agricoli della tenuta tristemente obsoleti;

2)       L’inquinamento (vero o presunto) provocato dalla centrale Enrico Fermi, che al momento della sua massima operatività (intorno al 1965) era la centrale nucleare più potente del mondo.

La tesi secondo cui gli abitanti se ne sarebbero andati per il timore di una nuova centrale nucleare, ancor più vicina (la Galileo doveva essere nucleare) e deturpante per il paesaggio, è presto smentita dal fatto che la frazione fu abbandonata ben prima che il progetto venisse messo in cantiere e costruite le torri (inaugurate nel 1997). Così come è assolutamente impossibile che la frazione sia stata abbandonata perché “troppo isolata”: ci sono luoghi ben più isolati tutt’ora abitati ed economicamente prosperosi.

Dopo l’abbandono, comunque, le entrate dei diversi edifici vennero murate, ad esclusione di quelle della tenuta di Cavour che furono semplicemente chiuse a doppia mandata, forse per evitare di rovinare – in un barlume di dignità – un edificio storico di quell’importanza.

Inutile dire che le precauzioni sono servite a poco. Girando per Leri, si vede come la furia di vandali e razziatori ci abbia messo poco a sfondare quei precari sbarramenti: in tutti gli edifici le “porte” in muratura sono sfondate, e dentro le stanze non si trova praticamente più nulla. L’unico edificio che, inspiegabilmente, non è stato “profanato”, è la chiesa di Leri, che possiede ancora l’antico portone in legno. La frazione è attraversata da una strada asfaltata che, tuttavia, non dev’essere molto battuta se si considera che su di essa crescono piccole pianticelle e arbusti.

[Cliccando su una foto parte lo slide show]

La chiesa e la scuola. Non esistono prove scritte, ma lo stile della chiesa di Leri fa pensare che si tratti di un’opera di Francesco Gallo (1672 – 1750), architetto di Mondovì che progetto moltissimi edifici sacri piemontesi (alcuni dei quali molto vicini a Trino, come ad esempio la bellissima chiesa di Alice Castello). Dall’aspetto imponente ma slanciato, costruita di fianco alla grangia e dotata di uno spazioso cortile, la chiesa di Leri è uno degli edifici meglio conservati dell’intero complesso, e il fatto che nessun vandalo sia mai riuscito a mettervi piede fa presupporre che anche all’interno si possano ancora ammirare le sue bellezze. Vicino alla chiesa si può vedere la scuola, unico edificio “moderno” presente nel paese, costruito probabilmente a cavallo degli anni ’50 con lo scopo di garantire ai figli dei contadini di ricevere un’istruzione senza per forza doversi recare a Trino o a Livorno Ferraris. Sulla parte laterale è ancora visibile, in ottimo stato di conservazione, una targa affissa in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia (1961).

La grangia di Leri. Tra le più importanti del Piemonte, la grangia di Leri conserva ancora oggi molti particolari legati alla sua funzione: sono ancora ben visibili i bocchettoni in legno che servivano per trasportare il grano, così come è ancora presente il fiumiciattolo che, attraverso un complesso sistema di ruote e ingranaggi (le cui tracce sono ancora visibili), permetteva alle macchine agricole di muoversi spinte dalla forza dell’acqua. È interessante notare come le uniche cose che ancora “si muovono” nel territorio di Leri, oltre agli animali, siano il torrentello e le ventole di aerazione della grangia, sospinte dal vento.

La tenuta di Cavour. L’edificio di maggior interesse resta senza ombra di dubbio la tenuta appartenuta a Camillo Benso, conte di Cavour. Essa si trova in posizione defilata rispetto a quella che potrebbe definirsi la piazza del paese, ma si fa apprezzare per gli stupendi particolari architettonici, assai più curati di quelli che si vedono sugli altri edifici della frazione. Nel 2011, in occasione del centocinquantennale dell’unità d’Italia gli esterni dell’edificio sono stati ristrutturati ed è stato avviato un progetto per trasformare la tenuta in un museo, ma oggi, anno domini 2013, la tenuta è stata nuovamente lasciata a se stessa. Un vero e proprio paradosso: fuori è perfetta, dentro uno sfacelo unico. Sulla facciata dell’edificio è presente una targa commemorativa dedicata a Cavour: la data riportata su di essa (1916) indica che venne affissa in occasione  dell’intitolazione della frazione al celeberrimo statista (avvenuta, appunto, nel primo ventennio del ‘900). Lateralmente alla tenuta è ancora presente, in mezzo al grande spiazzo che poteva esserne la corte,  un magnifico pozzo in cemento. Addentrandosi dentro la tenuta – è molto facile: le porte sono spalancate – si rimane assai sorpresi nello scoprire che ogni stanza è finemente affrescata e costellata di meravigliosi particolari architettonici (volte a botte, caminetti, davanzali in marmo bianco, pavimenti pregiati). Mancano totalmente oggetti d’arredo e mobili, probabilmente tra le prime cose ad essere depredate; resta solo una grossa, pesante, stufa decorata.

Non siamo soliti sollevare questioni “politico- amministrative” nei nostri post – anche perché se non ci fossero posti abbandonati il nostro blog non esisterebbe – ma è davvero un peccato che un luogo come Leri Cavour, evidentemente sfruttabile anche a fini turistici, venga lasciato a se stesso in questo modo. Tuttavia, a livello emozionale, Leri è uno dei posti più straordinari che abbiamo visitato. Un vero e proprio paese fantasma, in cui regna un irreale silenzio. In cui la natura si sta pian piano riprendendo ciò che le appartiene, in cui le tracce umane – ancora ben visibili – sono destinate a perdersi nell’eternità delle cose. Non siamo soliti dare voti ai luoghi delle nostre escursioni, ma se lo facessimo Leri meriterebbe senza ombra di dubbio un bel dieci. Questa Pryp’jat’ in miniatura è davvero un luogo assai suggestivo.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci & Elis


[1]La parola grangia o grancia deriva da un antico termine di origine francese, granche (granaio) e indicava originariamente una struttura edilizia utilizzata per la conservazione del grano e delle sementi. Più tardi il termine fu usato per definire il complesso di edifici costituenti un’antica azienda agricola e solo in seguito assunse il valore di una vasta azienda produttiva, per lo più monastica.

LUCEDIO E LO SPARTITO DEL DIAVOLO

Testi e fotografie di Riccardo Poma

[Cliccando sulle immagini è possibile vederle in HD]

1

LUCEDIO (VC). Il complesso abbaziale di Lucedio si trova sul territorio comunale di Trino, in provincia di Vercelli. Perso in un’immensa distesa di risaie, e distante pochi passi dalle imponenti torri della centrale termoelettrica Galileo Ferraris (nella foto sotto, una veduta delle torri scattata dall’ingresso dell’abbazia), il complesso venne fondato nel 1123 ad opera di alcuni monaci cistercensi. Per quanto riguarda i cenni prettamente storici (e per evitare di ripetere cose scritte in migliaia di altri siti), rimandiamo all’esaustiva pagina su Lucedio presente su Wikipedia. Al giorno d’oggi, comunque, il complesso è privato ma si può visitare consultando il sito ufficiale.

Il complesso possiede due edifici sacri: l’abbazia, denominata Santa Maria di Lucedio e recentemente restaurata, e la cosiddetta “chiesa del popolo”, costruita dinnanzi all’abbazia con uno stile decisamente più sobrio. L’abbazia originale (1150-1175 circa), pericolante e malmessa, fu abbattuta per lasciare il posto alla chiesa che vediamo oggi, datata 1770. Tuttavia, alcune tracce dell’antico monastero medievale sono ancora presenti: l’aula capitolare, l’inconsueto campanile a pianta ottagonale (edificato su una base quadrata in stile gotico lombardo), il refettorio con volte a vela. La “chiesa del popolo”, costruita nel 1741 per garantire anche alle famiglie contadine di Lucedio le funzioni sacre, è attribuita a Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, ed è in stile tardo barocco.

2

Leggende. Come in qualsiasi luogo sacro, per giunta isolato e con un nome tutto sommato strambo (Lucedio significa Luce di Dio, e a molti la cosa ricorda Lucifero, l’angelo di Dio più luminoso, nonché – nella mitologia romana – divinità della luce), Lucedio è stato spesso accompagnato da misteriose leggende che, ancora oggi, attirano turisti e curiosi. Nel 2008 la trasmissione televisiva americana Ghost Hunters[1] vi ha dedicato una puntata, mentre appena due anni dopo il complesso è apparso nientemeno che su Mistero, il programma sul paranormale ai tempi condotto da Marco Berry. La leggenda sostiene che Lucedio sia stato edificato sopra a un portale infernale. A sostegno (?) della tesi ci sarebbero alcuni particolari architettonici: il campanile dell’abbazia possiede una pianta ottagonale, fatto effettivamente anomalo per un edificio medievale ma non per forza riconducibile ad una presenza demoniaca; inoltre, la chiesa fu costruita a sud del complesso invece che a nord, posizione deprecabile in quanto essa non veniva in alcun modo riparata dai venti né tantomeno illuminata dal sole: tuttavia non possiamo sapere quale fosse la morfologia territoriale negli anni in cui venne edificata, ed è difficile parlare del diavolo solamente per un anomalo posizionamento.

Sempre secondo la leggenda, nella sala capitolare vi sarebbe una colonna “piangente”; molti testimoni confermano il fenomeno, molto meno inspiegabile di quanto sembrerebbe: la colonna è costruita in pietra assai porosa e, considerando la grande umidità del luogo e la conformazione del particolare architettonico (sopra di esso vi sono alcuni buchi nella pietra), non è difficile comprendere che si tratti semplicemente di infiltrazioni d’acqua dal piano superiore.

Un’altra leggenda parla di fantasmi nella nebbia (strano, la nebbia nel vercellese? Sulle risaie?), un’altra sostiene che nei sotterranei vi sia una sala segreta che contiene, ancora seduti in cerchio, i cadaveri mummificati dei monaci fondatori; c’è poi chi afferma che ogni qualvolta si parli di Lucedio qualcuno, immancabilmente, muoia (accadde ad un operaio che stava ristrutturando il complesso negli anni ’60).

3

Gli unici fatti inquietanti comprovati sono due. Il primo si riferisce al ritrovamento di un cadavere murato vivo, durante alcuni lavori di restauro presso l’abbazia: gli operai sostennero che il poveretto avesse ancora i vestiti conservati, e che l’espressione sul suo volto fosse quella di qualcuno morto di stenti. Il secondo è quello del ritrovamento del cadavere carbonizzato di una giovane donna, secondo la leggenda arsa viva durante un rituale satanico. Questo fatto fu documentato da La sesia del 9 settembre 1949, ma i contorni della vicenda, pur sfortunati, non hanno nulla di demoniaco:

“In frazione Badia di Lucedio, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, per cause non ancora accertate dall’autorità competente, una grave disgrazia ha causato la morte di una giovane di 22 anni (…). La ragazza morta in seguito all’incidente, stava tornando a casa col fratello dopo aver pescato le rane, quando si incontra con un certo Renzo Greppi di anni 25 che trasportava una tanica contenente 5 litri di benzina. Quest’ultimo si sarebbe poi appartato in uno scantinato con Romilda per pulire, con la benzina, una macchia sul vestito della fanciulla. Durante il travaso sarebbe caduta della benzina sul pavimento e i giovani, per cancellare le macchie, avrebbero acceso il liquido a terra con un fiammifero, procurato da un terzo giovane di nome Enzo Sala di anni 20. Ciò avrebbe incendiato il carburante sul vestito di Romilda provocandole ustioni dall’esito purtroppo letale”.

Certo lo svolgersi dei fatti è quantomeno strano, ma il tutto fa venire in mente ad un incontro piccante finito male piuttosto che ad un sacrificio in onore di Satana.

4

Lo spartito del diavolo. Questa lunga introduzione sul complesso abbaziale di Lucedio – che vi abbiamo proposto un po’ per creare l’atmosfera, un po’ per informarvi sulla natura dei luoghi che abbiamo visitato – è in realtà solamente un prologo del post vero e proprio, che ha come argomento non tanto gli edifici monastici quanto la piccola chiesa del Santissimo Nome di Maria, conosciuta ai più come Madonna delle Vigne. Il piccolo Santuario sorge a pochi passi dal complesso abbaziale, su una collinetta che separa la frazione di Montarolo dalla spianata che accoglie Lucedio. Lo si può raggiungere comodamente prendendo il sentiero alberato che parte dietro il piccolo cimitero presente sulla strada. Cinque minuti di cammino nei boschi e ci si ritrova davanti alla chiesa: costruita nel XVII secolo dai monaci di Lucedio, a pianta ottagonale e alta circa 25 metri, è abbandonata e sconsacrata da una quindicina di anni.

5

Il motivo del suo abbandono, al di là della posizione isolata, si può collegare alla leggenda dello “spartito del diavolo”, probabilmente la più caratteristica (e paurosa) che si possa sentire su Lucedio.

La leggenda narra che nel 1684, nel vicino cimitero, alcune streghe evocarono il demonio. Quando fu il momento di imprigionarlo nuovamente nell’Ade, qualcosa andò storto, e il diavolo si impossessò degli abati di Lucedio che, da quel momento, iniziarono una scorribanda di soprusi, stupri, omicidi, orrori di ogni tipo, perpetrati abusando del proprio potere religioso. La leggenda vuole che nel 1784, esattamente cento anni dopo l’evocazione, da Roma giunse a Lucedio un esorcista che, con grande sforzo, riuscì a rispedire il demonio all’inferno e a liberare gli abati. Come suggello all’incarcerazione del demone, venne composta una musica magica avente il potere di trattenere il diavolo qualora si fosse nuovamente manifestato. Tuttavia – e qui viene il bello – suonando il brano al contrario (da destra sinistra e dal basso verso l’alto) si otterrebbe l’effetto opposto, ovvero quello di evocare nuovamente il diavolo nel nostro mondo.

[Cliccare su un’immagine per fare partire lo slideshow]

La leggenda rimase nell’aria per parecchi anni, fino a quando, una quindicina di anni fa, l’archeologo Luigi Bavagnoli, fondatore del gruppo Teses, fece una sensazionale scoperta:

“Nel 1999 vagavo in zona scattando fotografie per documentare i monumenti di interesse artistico e culturale che, a mio avviso, erano a rischio, per sensibilizzarne il recupero e la valorizzazione. Fu così che mi ritrovai all’interno del vicino Santuario di Madonna delle Vigne, all’epoca abbandonato a se stesso, avvolto da rampicati e soggetto a poco salubri infiltrazioni di acqua piovana. Notai, sopra il portone di accesso, un affresco, che, tra le altre cose, rappresentava un organo a canne ed uno spartito. All’epoca non ero ancora a conoscenza della leggenda dello “Spartito del Diavolo”, fotografai il tutto e me ne dimenticai. Solo dopo aver raccolto diverse testimonianze in merito a questa leggenda mi posi il quesito. Che lo spartito che tanti curiosi, ricercatori e storici avevano cercato in forma cartacea, non fosse invece quello affrescato nel vicino santuario? Contattai quindi la dott.ssa Paola Briccarello, studiosa di musica antica e liturgica. Le affidai il compito di capire se quelle note potevano avere qualche legame con la leggenda. Dopo poco tempo mi fece sapere che quel pentagramma conteneva delle stranezze. Riporto alcuni concetti, rimandando i dettagli al suo studio. Tramite un sistema di sostituzione di note con le lettere, simile ad una cifratura, comparivano chiaramente tre parole: DIO, FEDE, ABBAZIA. Singolare e, oserei dire, non casuale. Inoltre mi spiegò che i tre accordi iniziali erano tipicamente accordi di chiusura, ovvero adoperati al termine, e non all’inizio, di un brano. Un po’ come se fosse stato dipinto al contrario.[2]

Al giorno d’oggi la Madonna delle vigne non versa in condizioni molto diverse rispetto a quando Bavagnoli la visitò nel 1999. Il sagrato come l’interno della chiesa sono cosparsi di macerie staccatesi dalle pareti, il che va presupporre che i crolli siano piuttosto frequenti. Le statue che un tempo ornavano la chiesa (nelle foto potete vedere le nicchie rimaste vuote) sono state trafugate da tempo, ma il resto rimane esattamente com’era: il piccolo altare con alle spalle un piccolo capitolo (dal soffitto assai suggestivo), la maestosa cupola ottagonale, un tempo affrescata, i capitelli e gli splendidi particolari architettonici (le arcate, le finestre, i lucernari), il “mitico” affresco sopra l’ingresso, rappresentante un organo a canne e “lo spartito del diavolo”. Sicuramente, come spesso tristemente accade in questi casi, la chiesa è stata colpita da numerosi atti vandalici, sottolineati dalle scritte sui muri (“Satan”) ma anche da un bizzaro ex voto visibile nei pressi dell’ingresso, che recita “per la chiesa delle vigne, perché torni a splendere”. Per ora, in realtà, nessuno pare intenzionato a far si che la Madonna delle vigne risplenda come un tempo. Il suo aspetto rimane assai lugubre e pauroso e, merito anche delle leggende che la accompagnano, resta una meta affascinante in grado di turbare anche i più coraggiosi. Suggestione? Sicuramente, ma Lucedio è uno dei pochi luoghi delle nostre terre in cui si può respirare davvero un’atmosfera misteriosa. E che, non fatichiamo a immaginarlo, di notte può facilmente tramutarsi in terrore.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci & Elis

FONTI:

http://www.principatodilucedio.it/index.html

http://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_Santa_Maria_di_Lucedio

http://www.welovemercuri.com/files/IL_PRINCIPATO_DI_LUCEDIO-1.pdf

http://www.teses.net/news/lucedio-e-lo-spartito-del-diavolo/

http://blog.libero.it/n3raforma/3862433.html


[1] Si tratta di una serie americana uscita anche in Italia in cui un gruppo di investigatori del paranormale indaga di notte nei luoghi apparentemente infestati da fantasmi.

[2] Il testo riportato è tratto da un articolo di Luigi Bavagnoli, creatore del gruppo Teses, apparso sul sito dell’associazione al seguente indirizzo http://www.teses.net/news/lucedio-e-lo-spartito-del-diavolo/

I FANTASMI DI SALETTA

Testi e fotografie di Riccardo Poma

1

SALETTA (VC). La piccola frazione di Saletta fa parte del comune di Costanzana, in provincia di Vercelli. Più che di una frazione vera e propria, si tratta di un piccolissimo assembramento di costruzioni che giace, isolato, in mezzo alla distesa di risaie che separa Vercelli da Trino. Con lo spopolamento della frazione, dettato probabilmente dalla posizione estremamente isolata, sono fiorite le leggende che accompagnano qualsiasi paese fantasma che si rispetti. Al giorno d’oggi Saletta è una frazione totalmente disabitata, utilizzata soltanto da chi lavora nei campi circostanti per parcheggiare mezzi agricoli e balle di fieno. Il complesso è formato da un vecchio castello, alcune cascine sorte a ridosso di esso, una chiesa con piccolo cimitero e un tempietto dalla pianta circolare. La frazione ha origini molto antiche: il suo nome compare in un atto datato 1148 e in un diploma di Federico Barbarossa del 1152[1]. Per quanto riguarda i cenni prettamente storici, vi rimandiamo ad alcuni siti che troverete elencati nelle fonti, in fondo al post.

2

3La chiesa. La chiesa di Saletta, dedicata a San Bartolomeo, viene menzionata per la prima volta in una carta del 1280. Imponente nell’aspetto e assai interessante nell’architettura (suggestivo il colonnato d’ingresso), la chiesa possiede un bizzarro frontone che non ha fatto che accentuare le dicerie inerenti a Saletta: per tutte la sua lunghezza, infatti, appaiono scolpiti i teschi rabbiosi di alcuni bovini. Per impedire ulteriori atti vandalici, l’ingresso della chiesa è stato recentemente murato, rendendo impossibile una visita all’interno. Sulla destra dell’edifico, ormai sconsacrato, vi è un piccolo cimitero che ospita ancora parecchie tombe di abitanti del luogo. Anche il cimitero, un tempo visitabile, è stato chiuso con una pesante catena per evitare ulteriori profanazioni.

4

5Il tempietto. La costruzione conosciuta come tempietto è in realtà un tabernacolo, dedicato a San Sebastiano. Rispetto al resto della frazione, il tempietto appare inspiegabilmente decentrato (si trova circa 450 metri a est della chiesa), ed è l’unica costruzione di Saletta difficilmente visitabile durante il periodo estivo. Esso si trova infatti in un fitto boschetto, percorribile soltanto quando le piante perdono il “verde” durante i mesi freddi[2]. A pianta circolare, il tempietto era magistralmente decorato in tutta la sua circonferenza.

6

Dicerie (?). Avrete notato, leggendo questo blog, che non siamo disposti a credere alle dicerie che spesso accompagnano i luoghi abbandonati (sembra quasi che l’aggettivo “abbandonato” sia sinonimo di “infestato”), e sicuramente non inizieremo a crederci dopo aver visitato Saletta, ma le leggende che accompagnano questo luogo sono talmente tante che forse vale la pena citarne qualcuna. Pur togliendo le palesi castronerie (i motorini si spengono nei pressi della chiesa, i cellulari non prendono – sic, come in qualsiasi posto isolato, aggiungiamo noi!), i si dice riferiti a Saletta sono parecchi, anche se quasi nessuno documentato.

Luoghi del diavolo. Informandoci per il nostro post su Oropa Bagni, altro luogo che la credenza popolare attribuisce ormai esclusivamente ai culti diabolici (che in effetti avvennero, ma poche volte e negli anni ’80), siamo venuti a sapere che spesso i luoghi abbandonati – specie se nei pressi di chiese e santuari – attirano folli ed esaltati convinti di evocare Belzebù accendendo un fuoco e scuoiando qualche povero scoiattolino di bosco. Saletta, che di luoghi sacri ne possiede ben tre (chiesa, cimitero e tempietto), non è probabilmente sfuggita a questo triste destino. In un articolo apparso l’8 dicembre 1991 su La stampa, alcuni ragazzi riferirono di aver visto, durante una gita notturna a Saletta, una forte luce in chiesa e alcune scritte inneggianti al demonio. L’attendibilità di queste testimonianze non è mai stata tuttavia provata.

8Fantasmi. Parecchi i fantasmi che, secondo le credenze popolari, investono il loro (eterno) buon tempo nei pressi di saletta. Ci sarebbe il fantasma di una giovane innamorata morta suicida, nipote del Marchese Pallavicini Mossi (coluì che eredito il feudo nel 1625, secondo i documenti): la leggenda narra che il suicidio avvenne nei boschi dietro la chiesa, e che Mossi avrebbe fatto erigere il tempietto proprio nel luogo del fattaccio. Vero o meno, la storia del suicidio potrebbe spiegare il mistero sulla strana posizione del tempietto, molto “isolato” rispetto agli edifici della frazione. Si parla poi del fantasma di un bambino trovato impalato nei pressi del cimitero, quello di una bambina che si ammalò e morì dopo aver visitato la frazione, addirittura si parla di un Poltergeist che infestò la casa di alcuni contadini della zona.

9Non è finita. Si sente raccontare dai contadini che abitano nei paesi limitrofi a Saletta che d’inverno (raramente in estate), nei campi a ridosso del tempietto, si vede comparire la figura nebulosa ed indefinita, avvolta in una luce bianca, di una donna che cammina pochi centimetri dal suolo per poi, improvvisamente, scomparire.

Ossa di giganti. Una delle poche leggende su Saletta che appare, se non provata, quantomeno citata in documenti ufficiali, è quella del ritrovamento di alcune ossa appartenute a esseri giganti. Lo storico vercellese Giovan Battista Modena, canonico vissuto tra il XVI e il XVII secolo, si convinse dell’esistenza di giganti prediluviani nel territorio piemontese. Nel 1622 egli scrisse: (a Saletta) si è ritrovato un corpo di gigante di altezza e grossezza indicibile che io stesso ho veduto, misurato….”. Il documento citato esiste, ma ovviamente non vi sono prove del ritrovamento.

Chilometri di sotterranei. Una delle leggende più famose su Saletta è quella dei cunicoli sotterranei che collegherebbero la frazione a Costanzana (circa 2 km). La partenza dei cunicoli si troverebbe nella stanzetta presente sotto il tempietto, ma visitandola nessuno ha mai trovato tracce di un qualche passaggio. Altre leggende parlano invece di un cunicolo che collegherebbe Saletta alla vicina frazione di Torrione. Ovviamente non vi sono prove in merito, ma va detto che in altri luoghi – nemmeno troppo lontani, ad esempio sotto il Monastero di Castelletto Cervo (BI) – la presenza di questi cunicoli è assolutamente documentata.10

L’unica cosa davvero certa è che, creduloni o meno, Saletta resta un luogo assai suggestivo e misterioso, in grado di inquietare anche chi, come noi, ha smesso di credere ai fantasmi. Tutti i luoghi abbandonati emozionano e turbano, talvolta mediamente, talvolta parecchio. La piccola frazione di Saletta, complici anche le tante leggende che la accompagnano, emoziona e turba sopra la media. Non sappiamo se davvero i suoi abitanti sono “scappati” terrorizzati (come affermava qualche giornale locale negli anni ’80). Le sue storie sono tutte tramandate oralmente, dai ragazzini in cerca di ardite prove di coraggio come dai vecchietti  al bar che le raccontano ridacchiando e senza mai crederci davvero (o forse, sotto sotto ci credono pure loro), e forse è proprio questo il suo punto di forza: soltanto l’impossibilità di provare una leggenda la mantiene tale. Ed è quest’impossibilità ad emozionarci e ad affascinarci, nonostante tutto.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]

Thanks to Franci & Elis

FONTI:

http://www.piemondo.it/storia-mistero-archeologia/222-i-misteri-di-saletta.html

http://www.welovemercuri.com/files/SALETTA_DI_COSTANZANA.pdf

http://www.teses.net/


[1] Tutte le informazioni su Saletta che trovate in questo post sono state “catturate”  dal gruppo Teses www.teses.net

[2] L’unica foto di questo post che non abbiamo scattato noi è proprio quella della veduta frontale del tempietto. Come noterete dalla fauna, è stata scattata d’inverno.

L’ISOLA #1 – GEOMETRIE

Testi e foto di Riccardo Poma

1

Questo edificio, che sorge tra Santhià e Formigliana (insomma tra Biella e Vercelli) in mezzo ad una grande distesa di risaie, mi ha sempre affascinato per almeno due ragioni. In primis, per la sua collocazione: non ci sono strade per raggiungerlo, si trova esattamente in mezzo ad una risaia. Una posizione che gli dona l’aspetto di un’isola anomala che, invece di giacere in mezzo al mare, si trova tra i campi di riso. Quando le risaie sono piene d’acqua, diventa un’isola a tutti gli effetti.

2

Ovviamente questa stramba collocazione è presto spiegata: sicuramente prima c’era una strada che portava ad esso, ma con la costruzione di nuovi campi e l’abbandono dell’edificio è probabilmente scomparsa. All’interno vi sono tracce di alcune mangiatoie, dunque doveva trattarsi di una stalla.

3

L’altro aspetto di questo edificio che mi ha sempre colpito è il colpo d’occhio che offre quando si giunge nei suoi pressi: si tratta infatti di una costruzione molto “geometrica”, armoniosa nel suo “trionfo di righe” verticali e orizzontali. Sono poche le vecchie costruzione ad essere così squadrate: certo, molte non lo sono più a causa dell’abbandono, ma non è difficile accorgersi che questo piccolo edificio si presenta in maniera ben diversa rispetto alle molte cascine abbandonate presenti in queste zone; oltre che l’aspetto squadrato, infatti, è decisamente particolare il tetto, che nel lato sud presenta uno spiovente assai pronunciato, probabilmente pensato per riparare il bestiame dal sole cocente.

4

Le linee della costruzione si sposano alla perfezione con quella, verticale, della stradina che gli passa accanto (senza toccarla, sennò non sarebbe un’isola), e con quella dell’orizzonte. Ma ci sono anche le linee delle “spalle” delle risaie, dei pali della luce, dei fossi. Le uniche linee asimmetriche e irregolari sono quelle delle montagne e degli alberi sullo sfondo, come a rimarcare ancora una volta quel suggestivo contrasto – visivo e “poetico” – tra le opere dell’uomo e la natura.

5

Le fotografie sono state scattate al tramonto per accentuare i contrasti cromatici e, di conseguenza, le geometrie da essi provocate. Gli scatti sono avvenuti in quei pochi minuti estivi in cui il sole compie un ultimo saluto per poi riposarsi dietro le montagne, quel breve lasso temporale che separa la luce dall’ombra: lo si nota ad esempio nell’ultima fotografia, scattata circa cinque minuti dopo la prima eppure già molto più scura.

6

Un’isola tra le risaie, un riflesso geometrico che unisce il cielo alla terra, la mano dell’uomo al piede ieratico e coinvolgente della natura.

[Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2013]