LA FABBRICA DEI COLORI

Testi e fotografie di Riccardo Poma1

Biella, il Cervo, un lanificio abbandonato: e così nacque il Biella Classic.
Tuttavia il Cervo non è l’unico fiume biellese ad aver ospitato sulle sue rive fabbriche di ogni sorta. Anzi. I fiumi biellesi circondati dalle fabbriche sono parecchi, e il fiume Strona è uno di questi.
È proprio sulle sponde dello Strona che nacque, più di cento anni fa, una delle realtà industriali più produttive del biellese, una roba da fare invidia alla tanto citata ghost town of wool di un post di qualche tempo fa. Questa è la storia di quella realtà.

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Questa è la storia della Tinval di Cossato, la fabbrica dei colori.

Cossato è la cittadina più grande della provincia di Biella. Così come il capoluogo è attraversato da un fiume, il Cervo, anche Cossato è attraversata da un fiume, un affluente del Cervo che si chiama torrente Strona. Ad inizio ‘900 la maggior parte delle fabbriche erano dei mulini: ovvio quindi che le costruissero vicine ai fiumi (in realtà poi si accorsero pure che così potevi scaricare qualunque cosa senza problemi, ma queste sono furberie venute dopo).

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Intorno al 1900, anno più, anno meno, un industriale costruisce una piccola fabbrica sullo Strona.
Il prodotto lavorato? La lana, ovviamente. Finita la guerra, intorno al 1945, il signor S. di Cossato acquista la fabbrica e progetta una cosa che ricorda molto le idee di un architetto che spesso citiamo, Giuseppe Pagano: l’idea del signor S. è quella di far diventare la fabbrica una piccola città, dotata di scuole, zone ricreative, centri di aggregazione. Una visione parecchio moderna, in cui l’uomo sta al centro e la fabbrica gli si plasma addosso. Cominciano i lavori. Il signor S. chiama la sua ditta TINVAL, ovvero Tintoria Industriale Vallestrona, decidendo non tanto di lavorare la lana quanto di colorarla. Arrivava bianca e se ne usciva colorata.

Ecco come nacque la fabbrica dei colori.

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24mila metri quadri, che diventeranno, negli anni di maggiore espansione, almeno il doppio. Insomma, tutta la parte nord di Cossato, quella che va verso Valle Mosso, diventa TINVAL.
Negli anni ’70 il signor S. lascia il posto al figlio, il signor E. Nel 1986 la Tinval conta più di 400 dipendenti, e il signor E. si rivela subito un imprenditore quantomeno controcorrente: va a cena coi suoi operai una volta alla settimana, fa volontariato e beneficenza nelle associazioni del paese, addirittura si candida alle elezioni con un sindaco comunista. Molti lo ricordano anche per la sua passione per gli animali. In che senso? Nel senso che, sui terreni della Tinval, negli anni ’80, vivono

a) 2 orsi marsicani
b) 2 dromedari
c) 1 yak
d) 1 emù
e) 1 daino

Un vero e proprio zoo, in cui i dromedari (si dice regalati da facoltosi clienti arabi) e gli altri animali vivevono liberi, in alcuni recinti presenti dietro la fabbrica. L’arca di Noè del tessile biellese procede a gonfie vele, almeno fino a metà degli anni ’80.

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Poi, inspiegabilmente, qualcosa inizia ad andare storto. Crack finanziari e denunce di inquinamento, soprattutto. Fatto sta che nel 1990 la TINVAL chiude i cancelli. Difficile individuare i veri colpevoli di quel pasticcio, ma di certo i cossatesi hanno le idee molto chiare su ciò che accade. Innanzitutto, sono certi che la colpa della chiusura non sia del signor E. che, anzi, viene ancora ricordato con affetto e commozione. No, secondo i cossatesi i colpevoli sono altri. Ma siccome costoro sono ancora tutti (o quasi) vivi e vegeti, mi limiterò a riassumere il pensiero dei cossatesi attraverso le parole del Giuanìn, 81 anni, ex operaio Tinval (andò in pensione nel 1989) che al bar mi dice:

“La Tinval ian ruinala i vari marchionne di turno e cumpagnia bela”

Qualcuno, secondo il Giuanìn, si arricchì parecchio con la TINVAL.

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A sentire i suoi amici e conoscenti, il signor E. non si riprese più da quel fallimento: non era solo il fallimento della Tinval, era il fallimento di un’idea di lavoro in qualche modo pura, trasparente, un’idea che il capitalismo selvaggio aveva irrimediabilmente sporcato ed infine annientato.
Quando, nel 1996, il signor E. decise di farla finita, furono in molti a pensare che quel gesto estremo fosse indissolubilmente legato alle sorti della tintoria.
La fabbrica dei colori era in pochi anni diventata la fabbrica del grigiore: chiusa, deserta, priva di vita. Un grigiore che sicuramente aveva investito anche il signor E., imprenditore buono, imprenditore “diverso” che amava il suo territorio e gli animali esotici.

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Nel 1999, l’ex area Tinval venne venduta all’asta. Alcuni capannoni – quelli “moderni”, edificati negli anni ’60 – furono subito affittati, altri solo recentemente hanno conosciuto una nuova vita: è il caso del padiglione anteriore, diventato un supermercato. Molti spazi, però, restano vuoti, specialmente quelli “della fabbrica vecchia”, adagiati sulle sponde dello Strona e costruiti con mattoni pieni, e non con dei – banali – muri prefabbricati di cemento armato.

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Dentro la fabbrica, al primo piano, è ancora presenta la macchina che fu centro nevralgico della produzione: al piano terra, la lana veniva divisa in matasse; poi, grazie ad un complesso sistema di nastri trasportatori, le matasse venivano spedite al piano superiore; qui, la lana veniva lavata e asciugata in un enorme riscaldatore (e dico enorme perché ci sto dentro in piedi). Gli operai dovevano solo assicurarsi che gli “appendini” non rimanessero mai privi di materia prima: lo “spostamento” della lana sul suo percorso prestabilito era del tutto automatico. La “macchina delle grucce” procedeva senza sosta.

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[cliccando sulle foto piccole parte lo slideshow]

Nei saloni vuoti l’acqua crea un tessuto sonoro grave ma accogliente. Si passa accanto a quella che fu la stanza adibita allo svago dei figli degli operai, l’unica dipinta con colori caldi; si scorge la scala a chiocciola che portava allo showroom nel sottotetto (guardate bene la foto, poi riparliamo di eventuale coraggio o eventuale codardia nel non salirla); si passa accanto alla centrale elettrica che dava energia a tutta la fabbrica; si giunge infine nel famoso showroom, sulla vetta, in cui i clienti più importanti venivano portati a osservare da vicino il prodotto (appena) finito.

E poi sale riunioni, scartoffie, macchin(ette o one?) del caffè, altre scale. E, alla fine, una spaziosa terrazza. Il posto in cui gli operai uscivano a fumare, a bere il caffè, a prendere un po’ d’aria. Forse, il posto in cui il signor E. veniva ad ammirare il suo regno, di notte, illuminato solo dalle luci di servizio. Poi si scende, si torna verso il basso. I silos che contenevano chissà cosa. Di nuovo quel muro cui, vuoi la vuotezza vuoi i vetri rotti, è facile vedere attraverso fino allo Strona, dietro.

E una donna manichino che ci guarda dalla finestra.

APPENDICE#1: A PIENO REGIME (1889 – 1989)

foto tratte dal libro “Quasi un racconto – Immagini dal tessile biellese“, 1989, ed. Tinval.
Fotografie di Dario Palma
eccetto quella a colori (estrapolata da una brochure della fabbrica) e la prima in B/N (archivio di Stato).

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APPENDICE#2: TINVAL IN B/N (la fabbrica dei colori in grigio)

Thanks to: Un immenso grazie ad Abramo, senza il quale questo post sarebbe rimasto soltanto nella mia testa. Per informazioni sui saloni “nuovi”, quelli affittabili, della Tinval, scrivete in privato. Grazie anche a Mariano.

 [Tutte le fotografie presenti in questo post sono tutelate dal diritto d’autore e, pertanto, non possono essere riprodotte altrove. Copyright Vuoti a perdere 2014]

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2 thoughts on “LA FABBRICA DEI COLORI

  1. Salve, bellissimo articolo, sarei intenzionato a visitare la parte abbandonata della fabbrica, venendo fa fuori si potrebbe avere l’indirizzo?

    Grazie mille

    • Salve Daniele. Grazie per i complimenti! Non vorrei sembrarle antipatico, ma io sono entrato col proprietario che mi ha espressamente chiesto di non portare altra gente, quindi preferirei sorvolare sulla posizione. Questione di rispetto verso il suddetto proprietario… sono certo che capirà.

      Grazie mille a lei,
      alla prossima 🙂

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